giovedì 1 dicembre 2011

un ricordo diLucio Magri

Un ricordo di Lucio Magri
Piero Di Giorgi

Fra le tante persone eccezionali che ho avuto la fortuna di conoscere c’era Lucio Magri. Non era un mio amico. L’ho conosciuto per contingenze politiche. C’era stata una prova di riunificazione tra il PDUP, di cui io facevo parte, e Il Manifesto e, nel 1975, si formò un organismo paritetico delle due formazioni politiche e quattro di noi del PDUP andammo alla direzione politica del Manifesto.
Tutti i giorni, alle ore 14, si riuniva la redazione nella stanza di Luigi Pintor per discutere dei contenuti del giornale del giorno successivo. Insieme al direttore Pintor, c’erano Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Lucio Magri, Valentino Parlato, Corradino Mineo e altri. La mia fu un’esperienza che durò soltanto un anno ma fu intensa, non solo per la tensione morale e ideale che aleggiava in quegli incontri ma fu anche una scuola di giornalismo, perché quel gruppo d’intellettuali straordinari faceva volare alto il quotidiano comunista e lo rendeva molto apprezzato e considerato nel panorama giornalistico dell’epoca.
Dicevo che quell’esperienza è durata soltanto un anno, sia per divergenze di linea politica tra le due componenti e soprattutto per il rifiuto dei fondatori del Manifesto, in particolare Lucio Magri, di farlo diventare organo del PDUP. Si consumò così la rottura e io seguii la linea Foa-Miniati, uscendo dal giornale.
Ho potuto essere testimone, in quell’anno o poco più, dell’onestà intellettuale e della passione politica di Lucio Magri, delle sue eccezionali e brillanti capacità di analisi e di grande affabulatore, non solo all’interno del giornale ma anche nelle sue funzioni di leader del PDUP. Io che ero un po’ più giovane di lui, confesso che ne subivo il fascino.
Spesso, si parla male, e anche a ragione, della spregiudicatezza, dell’eccessiva pragmaticità di tanti politici e si estende un giudizio negativo alla politica in generale. Si dimenticano figure fulgide che hanno vissuto e praticato la politica con grande lealtà, passione, dedizione, servizio alla collettività, come Enrico Berlinguer, Pietro Ingrao, Giorgio La Pira, Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Vittorio Foa e tanti altri. Ebbene, Lucio Magri era tra questi. Un esempio di uomo, nel quale erano confluiti valori e ideali evangelici e marxiani, interpretati con estrema coerenza nella prassi quotidiana, vissuti con la passione e l’ardore dei neofiti e con la razionalità che deriva da una coscienza matura.
Anche per questo Lucio Magri è morto. E’ morto come è vissuto. Dolorosi vissuti personali e l’amara constatazione del fallimento dell’utopia egualitaria, la difficoltà ad accettare la discrasia tra gli ideali perseguiti nella sua lunga vita e la realtà di un mondo in cui ingiustizia e disuguaglianze imperversano e trionfano lo hanno tuffato in una spirale depressiva, che colpisce, spesso, gli uomini più sensibili e che ti fa decidere per la chiusura di un ciclo.
E’ giusto, è sbagliato quel gesto così irreversibile? Io non lo so. Bisogna trovarvisi dentro in quel turbine ossessivo della mente. Nessuno può giudicare. La sua morte merita rispetto come la vita che ha vissuto.

domenica 13 novembre 2011

governo tecnico. Cos'é?

La querelle governo tecnico o politico
Piero Di Giorgi

In questi giorni bui per l’Italia, si assiste a una strana querelle tra governo “tecnico” e politico e viene anche detto che il governo tecnico è una sconfitta della politica. Ma di cosa parliamo? A me sembra che la questione, in verità, rileva, sotto il significato letterale delle parole, una concezione falsa e distorta della politica. E precisamente, con la suddetta artificiosa distinzione, emerge una concezione della politica come di un’oligarchia di esperti professionisti dediti a vita agli affari della res pubblica e guai quindi a invadere il loro campo. In verità, la politica, come il termine di origine greca denota, significa dedicarsi alla polis, cioè alla città, alla cosa pubblica, al bene comune. E questo compito dovrebbe essere sentito da tutti i cittadini consapevoli che vogliono esercitare la cittadinanza attiva, cioè partecipare e non semplicemente delegare. Quel che avviene oggi è una distorsione della politica con la P maiuscola ed è per questo che il professionismo politico porta a quei privilegi di casta a tutti ben noti. Invero, dovrebbe esserci una legge che prevedesse che chi non ha un lavoro o una professione non possa dedicarsi alla politica. Mentre un artigiano, un operaio,un insegnante, un professionista che voglia dedicare un periodo del proprio tempo alla politica istituzionale come rappresentante (deputato, senatore, sindaco), può partecipare a questi ruoli istituzionali soltanto per un tempo limitato (ad esempio non più di due mandati). Durante questo periodo in cui si rivestono cariche istituzionali, non si acquisisce nessun nuovo diritto in più né nuove pensioni, come si verifica oggi. Infatti, se uno è professore universitario o avvocato o altro, può cumulare la pensione della sua attività lavorativa e quella di senatore o deputato, e se ha fatto il deputato regionale e quello nazionale, avere anche una terza pensione. Sono abnormità inaccettabili. La logica vorrebbe che, se io mi dedico per un certo tempo alla cosa pubblica, debba sospendere il mio lavoro, la mia professione, per ritornarci alla fine del mio impegno pubblico, senza perdere nulla in termini di continuità di contribuzione ai fini pensionistici.
Questa sarebbe una bella riforma della politica. Si avrebbero non soltanto tanti risparmi, ma finirebbero anche tanti privilegi e certamente diminuirebbe anche la corruzione.
Ecco perché, allo stato attuale, i professionisti della politica si sentono lesi nell’essere sostituiti da un esecutivo tecnico, pur in una situazione di emergenza e coi pericoli di fallimento che corre il nostro Paese.
Oltre tutto, per governo tecnico s’intende un governo affidato a persone con particolari competenze, nella fattispecie di ordine economico, e che dovrebbe essere al di sopra delle parti. Ma questa è una sciocchezza, perché non esiste un tecnico neutrale né una scienza neutrale. Ciascuno di noi è invischiato nella sfera dei rapporti sociali ed è portatore, anche a livello inconscio, di idee, valori e determinati punti di vista. Perciò il vero rischio del governo Monti potrebbe essere, considerato che la stragrande maggioranza degli economisti si è abbeverata all’unica fonte delle ricette neocapitaliste, di prendere provvedimenti a senso unico, che colpisce i soliti noti. In tal caso, sarebbe bene che venisse affiancato dai capi di partito dell’ex maggioranza e dell’opposizione per potere operare una sorta di stanza di compensazione tra interessi opposti.

lunedì 12 settembre 2011

“L’obbedienza non è più una virtù. Ribellarsi è giusto”

Piero di giorgi

Uno spettro si aggira per il mondo, lo spettro della crisi del capitalismo globale. Una vera debacle per i suoi teorizzatori e per i suoi seguaci.
La crisi, per anni è stata negata da Silvio Berlusconi e dai suoi scherani e, quando, finalmente, qualche mese fa è stata ammessa, il rimedio è stato peggiore del male. Abbiamo assistito alla farsa drammatica (mi si passi l’ossimoro) di una manovra, cambiata più volte in pochi giorni, che ci ha esposto al pubblico ludibrio del mondo. Già il termine stesso dà l’idea di una manovra del conducente d’auto (marcia avanti, marcia indietro, a destra, a sinistra), di tentativi, di compromessi costanti e di mediazione tra interessi e privilegi diversi, con l’unico obiettivo alla fine di far pagare la crisi sempre ai soliti ceti medio bassi, lavoratori dipendenti e pensionati, che già devono fare acrobazie per sopravvivere. Una manovra, tra l‘altro, che va in direzione opposta alla ripresa dell’economia, che anzi la deprime ulteriormente. Il che non era difficile da capire. Lo sanno anche gli studenti del primo anno di diritto o di economia che se non si stimola la domanda, aumentando la capacità di spesa, l’economia langue. Il problema delle aziende è la scarsità della domanda perché i portafogli del popolo sono vuoti. Se si abbassano le tasse e si tagliano i contributi ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, aumenta la capacità di spesa e quindi la domanda di beni. Eppure, il livore classista di questo governo, la cui faccia emblematica è quella del ministro Sacconi (ex socialista), continua a persistere con misure che colpiscono sempre i più deboli, esasperando ancora di più le insopportabili disuguaglianze sociali, che hanno raggiunto livelli prima mai esistiti.
La crisi ha messo in luce con maggiore evidenza, se ancora ce ne fosse bisogno, la mediocrità della classe dirigente, anche a livello europeo, ma in particolare del nostro Paese, la cui cordata di governo, d’altronde e come è noto, è stata arruolata, in buona parte, non già per competenze e professionalità bensì per affinità elettive con il premier nell’ambito dei piaceri e degli affari, nonché per spiccate doti di gregarismo.
Dalla mediocrità non è esente tutta l’opposizione, compreso il PD, che non manifesta alcun progetto alternativo concreto e visibile e in cui la selezione della nuova classe dirigente avviene alla rovescia, premiando i porta-borse, burocrati di partito e i più disinvolti. Non risalta neppure la classe dirigente imprenditoriale, avida soltanto di profitti, non in grado di farsi carico di iniziative forti in direzione del bene comune e incapace perfino di protestare a fronte dell’inanità del governo. Soltanto ieri la Marcecaglia è arrivata a dire che se il governo non è capace di avviare la ripresa se ne deve andare. Più di venti miliardi di Euro, ogni anno, vanno alle aziende private e provengono dalle tasse che pagano i lavoratori dipendenti e i pensionati, un vero e proprio trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale, come dimostra con documenti alla mano un recente libro edito da Chiarelettere.
Le disuguaglianze hanno toccato livelli mai raggiunti prima, con una forbice che, se negli anni settanta era da uno a trenta, ora è da uno a trecento. Se prima una famiglia monoreddito riusciva a pagare il canone di locazione della casa e a soddisfare i bisogni essenziali, ora siamo in presenza di una condizione di irrazionalità tale per cui pagare la pigione costa più della retribuzione media di un lavoratore dipendente. I redditi fissi, quelli di coloro che pagano le tasse alla fonte, sono stati dimezzati dalle speculazioni avvenute nel passaggio dalla lira all’euro, mai controllate; né alcuna forza politica o alcun sindacato né alcun singolo parlamentare hanno alzato un dito per porre il problema di adeguarli; anzi continuano a essere sempre più erosi dall’inflazione e dalle varie addizionali imposte dagli enti locali. I bisogni dei più deboli non sono più difesi da nessuno. Siamo arrivati a un punto di assurdità tale per cui l’unico sindacato, la CGIL, che, di tanto in tanto, proclama uno sciopero, viene criminalizzato dalla destra e criticato dall’opposizione di centro e da settori della c. d. sinistra. Tra questi ultimi si distingue il giovane rampante sindaco di Firenze, il quale, nel mentre vuole “rottamare”i vecchi dirigenti per farsi spazio, crogiolandosi nei suoi privilegi della politica, mostra di essere indifferente alla condizione dei suoi coetanei che vivono nel precariato o con lo spettro della disoccupazione.
Si avverte in giro un senso di frustrazione diffusa, di rabbia e d’impotenza. Ci s’interroga sul che fare a fronte del fatto che le organizzazioni storiche sorte per organizzare il disagio siano latitanti.
Penso che la gravità della situazione (rischio default con tutte le conseguenze sulle retribuzioni e sulle pensioni) sia tale che, in mancanza di una rappresentanza, sorge l’urgenza di autorappresentarci. Ci sono stati nel corso di questi ultimi anni grandi movimenti di donne come quelle che si sono organizzate con lo slogan “se non ora quando”, movimenti di giovani delle scuole e delle università, di disoccupati e precari, di ricercatori e insegnanti, movimenti spontanei ed eterogenei come il “popolo viola”. Non è più il tempo di comparse episodiche per poi sparire, occorre una mobilitazione permanente di tutti per portare in piazza il disagio, chiedendo un nuovo modello di sviluppo e una più equa ridistribuzione della ricchezza, che è l’unico modo serio e strutturale per uscire dalla crisi.

venerdì 3 giugno 2011

Report dalla Palestina

Non mi capitava dal 2001, tre mesi dopo l’11 settembre, all’aeroporto di Miami, in transito per il Guatemala, quando sono stato sottoposto a un controllo in tutte le parti del corpo e per un lungo tempo. Mi sembrava la stessa atmosfera al terminal n. 5 di Fiumicino, il 12 maggio, in attesa di partire per Tel Aviv. Due ore d’interrogatori e di controlli. Finalmente c’imbarchiamo. Siamo una delegazione di sei persone (Gian Luca, Loretta, Franco, Carla, Tullio e io) organizzata dalla Provincia di Roma in collaborazione con la CGIL di Modena e un “Ponte per”, con lo scopo di monitorare alcuni progetti della cooperazione italiana in Palestina.
All’aeroporto di Tel Aviv, dove giungiamo dopo 3 ore e un quarto, troviamo Meri e Davide, due amici cooperatori, coi quali ci avviamo al campo profughi di Betlemme, dove alloggeremo tre giorni presso l’IBDAA Cultural Center. Ci viene comunicato dal consolato che non c’è il permesso per Gaza e che se ne parlerà Domenica 15. Il pomeriggio è occupato da una scarpinata sulla collina, dalla quale si può ammirare Betlemme e la valle del Giordano. Prima di cena, insieme a Giorgio, un amico fotografo, che opera in Palestina, mi reco a visitare la Chiesa della natività al centro di Betlemme. Un buon ristorante panoramico ci fa gustare la buona cucina palestinese. Di ritorno al campo dove dormiamo, troviamo nella piazzetta un’atmosfera festosa di musica e danza in occasione di un matrimonio. Invitati, partecipiamo per un’oretta alla loro festa.
L’indomani mattina, partiamo per Gerusalemme. E’ l’antivigilia della Nakba, la ricorrenza festosa per Israele, perché segna la nascita del suo Stato nel 1948, infausta per i Palestinesi, per i quali comincia la tragedia dell’occupazione e dei soprusi. C’è una manifestazione dei palestinesi di fronte all’ingresso della porta di Damasco e tanta polizia israeliana in assetto di guerra. Poi c’inoltriamo per il Suk di Gerusalemme, attraverso la via Dolorosa fino a giungere alla Basilica del Santo Sepolcro e della resurrezione. Dopo una breve visita, passiamo dal Muro del pianto, dove assistiamo per un po’ al rituale ebraico della sbattuta della testa al muro.
Interessante la visita, nella mattinata del 14, al Dialogue cultural center, dove abbiamo interloquito con il presidente, lo scrittore Nasser Iberahine. Il centro è composto d’intellettuali israeliani e palestinesi, i quali, oltre a dialogare tra loro per trovare punti di convergenza, cercano di fare opera di politicizzazione e chiarificazione per giungere a una lotta su obiettivi comuni, benché difficile finché ci sarà l’occupazione. E tuttavia, per la prima volta, è stato organizzato un convegno a Ebron con molti partecipanti. Quanto ad Hamas, Nasser ci ha detto che si tratta di un movimento politico realistico e pragmatico, anche se vi sono gruppi integralisti che hanno ucciso altri palestinesi, affermando, di contro, la laicità cui s’informa l’azione del suo centro. Riguardo al cambiamento avvenuto in Egitto, ha sottolineato che Mubarak era un fantoccio dell’America e che oggi l’Egitto può giocare un ruolo importante nel conflitto israelo-palestinese. Non manca di sottolineare l’assenza di una politica europea per il Medio-Oriente, totalmente appiattita sugli Stati Uniti.
Il pomeriggio, dopo avere visitato il centro e il suk di Betlemme, abbiamo fatto un giro per il campo profughi “Aida”, dove abbiamo assistito anche a una gara di aquiloni. Terribile il muro che lo circoscrive, dietro al quale c’è la tomba di Rebecca. Siamo stati a casa di un ragazzo amico di Meri, la cui casa è rimasta al di là del muro. La serata si è conclusa assistendo a un concerto, nell’università pubblica di Betlemme, con complessi di palestinesi residenti, palestinesi residenti in Siria e in Libano, che hanno ripercorso canzoni e musiche della loro storia e tradizione, con grande partecipazione di pubblico.
Il 15 maggio è la data in cui il consolato ci aveva comunicato che potevamo andare a Eretz per passare alla striscia di Gaza. Alzata alle cinque e andiamo con un pulmino a Ramallah, da dove, con due macchine, ci rechiamo al check-point di Herez. Ma il 15 maggio è il giorno della Nakba ed è prevista una mobilitazione generale dei palestinesi verso tutti i confini di Israele e quindi anche da Gaza verso Eretz. Capiamo subito che, contrariamente a quanto dettoci dal funzionario del consolato, non avevamo alcun permesso per entrare. Presentiamo i passaporti, ci fanno accomodare negli uffici del confine. Dopo un poco, avvertiamo un certo nervosismo. Vengono dei soldati israeliani e ci fanno uscire, intimandoci di allontanarci. Non facciamo in tempo a spostarci nella zona di sosta dei taxi, che cominciamo a sentire una sequela di botti, che sembrano bombe. Sapremo dopo che si trattava di pallottole sparate dagli israeliani, che oltre a spappolare l’obiettivo, fanno partire delle lamine, come dei piccoli dischetti che tagliano tutto ciò che incontrano. Sentiamo sopra di noi una squadriglia di caccia e ci sono anche gli elicotteri apache e anche una contraerea. Sentiamo anche le sirene delle ambulanze e comprendiamo che qualcosa di grave sta avvenendo al di là del muro. Noi siamo preoccupati e impotenti e decidiamo di trasferirci presso il posto-ristoro che si trova a due Km da lì. Sapremo poi che ci sono stati due morti e oltre 100 feriti, tra cui alcuni anche gravi e poi 20 morti sul confine siriano e libanese, tra cui anche bambini, solo perché i manifestanti si erano portati sotto il muro di confine. Sapremo anche che dai consolati europei, tranne dal nostro, era stato diramato un allarme di rischio rapimento per gli italiani. Ci dicono anche che il check-point sarà chiuso per 24 ore.
Ce ne ritorniamo a Ramallah, ci prendiamo un albergo. Il resto del viaggio ruota intorno all’attesa per l’ingresso a Eretz-Gaza, senza potere programmare altre iniziative. Il 16 gli amici del gruppo tornano a Eretz nel vano tentativo di entrare. Io sono rimasto e ho approfittato per fare un giro a Ramallah insieme a Davide, un giovane impegnato nella cooperazione che vive nella porta accanto alla casa di Meri e Marina.
Il 17 maggio, dopo vari contatti con il consolato, visitiamo una scuola nel campo profughi di Qalandiya, che raccoglie profughi del ’48 e i loro discendenti. Nei pressi della scuola, visitiamo la cooperativa di scarpe, borse e cinture di cuoio, in collaborazione con la ONG italiana “Vento di terra”. Nel pomeriggio visitiamo alcuni orti domestici nei villaggi di Isma e Al Azariya in Betania (luogo dove sarebbe avvenuta la resurrezione di Lazzaro) i cui progetti sono sostenuti dalla ONG italiana ACS, in collaborazione con l’associazione palestinese PARC (Palestinian Agricoltural Relief Committee), per aiutare le famiglie più bisognose, a cui gli insediamenti israeliani hanno sottratto i terreni di coltivazione e di pascolo. Abbiamo visitato anche una piccola associazione di donne, con cui collaborano anche donne israeliane e che si occupano di preparare pasti e confetture di frutta e verdura. Dopo una visita al muro che separa Al Alzariya da Gerusalemme, all’altezza del Monte degli Ulivi, siamo rientrati all’albergo della mezza luna rossa, dopo esserci consentita una spaghettata a casa di Meri. Verso le 23, 20, giunge, ormai inaspettata, la telefonata del consolato che ci comunica l’autorizzazione per passare a Gaza l’indomani molto presto. L’indomani è il 18 maggio, l’ultimo giorno di nostra permanenza in Palestina. Io avevo ormai preso la decisione di non andare. Ho approfittato per visitare Gerico, la valle del Giordano e il Mar Morto.
Gli altri amici della delegazione hanno incontrato i contatti di Gaza che li hanno portati a visitare i progetti di cui la delegazione della Provincia di Roma e altre associazioni sono cofinanziatori. Poi sono andati all’università pubblica di Al Quds, che accoglie 17 mila studenti di cui i due terzi sono donne. Poi la sera hanno incontrato il consiglio municipale di Beitlahiya.
Il 19 maggio è il giorno del nostro ritorno. Abbiamo l’aereo per Roma alle 18,50. Con Meri partiamo da Ramallah alle 11 per andare a Eretz. Quando arriviamo alle 13,00, il resto della delegazione aveva già passato i controlli e ci attendeva al posto di ristoro lì vicino, dove abbiamo preso un panino e un caffè. Alle 14 ci siamo diretti a Tel Aviv, sottoponendoci ai rigidi controlli e attendendo a lungo il nostro capogruppo Gian Luca Peciola a cui, con la scusa che aveva il timbro della Giordania sul passaporto, hanno fatto pagare caro il passaggio a Gaza, sottoponendolo a controlli corporali e del bagaglio, davvero avvilenti. Alle 21,30 locali siamo arrivati a Fiumicino, dove, a malincuore, ci siamo separati dai nostri compagni di viaggio coi quali abbiamo condiviso tante emozioni e chissà, forse siamo tornati più ricchi.
Che dire? E’ stata un’esperienza unica. Certamente diversa da chi va in Palestina da turista. Bisogna entrare dentro quella realtà per capire lo stato di prostrazione e di rabbia di un popolo che vive su un territorio occupato e costantemente rapinato, sottoposto a continui controlli. Nonostante il muro, si vedono abbarbicati sulle colline enormi agglomerati bianchi di case dei coloni, che sottraggono ulteriore terreno all’agricoltura e al pascolo.
Ma c’è un’altra cosa che mi sembra di dovere sottolineare e che forse spiega anche la situazione di stallo in cui da decenni si trova la questione palestinese. Arrivano soldi da mille rivoli e ciò ha permesso non solo fenomeni di corruzione che si sono manifestati sia nella dirigenza di Hamas e dell’autorità nazionale palestinese, ma anche il formarsi di una certa borghesia, il cui status stride con quello della popolazione dei campi e quella comune, che è molto critica verso la gestione autoritaria della loro dirigenza.
Tuttavia, si coglie una fase di nuova speranza e di forte determinazione e una grande consapevolezza, soprattutto nelle nuove generazioni, cresciute al di fuori delle divisioni e contrapposizioni di potere delle varie componenti della dirigenza palestinese. C’è ormai una volontà maturata nel volere giungere a proclamarsi Stato indipendente, probabilmente entro settembre. E che i tempi siano maturi, sembra abbiano trovato suggello nelle parole del nostro presidente della Repubblica, il quale, in Palestina negli stessi giorni in cui c’eravamo noi, ha annunciato l’apertura di una sede diplomatica palestinese in Italia.
Piero di giorgi

giovedì 14 aprile 2011

La verità è il cibo della mente. Le bugie sono il veleno

piero di giorgi Tra le tante bugie, Berlusconi ha, finalmente, detto la verità: “Al confronto con lui Al Capone è un dilettante”. Non c’è dubbio. La magistratura si trova a fronteggiare un pezzo da novanta, un soggetto con la tendenza a delinquere, con l’aggravante che il re degli imputati è il capo del governo. L’ho ha detto all’assemblea dei cofondatori del PDL insieme a un’altra clamorosa bugia. Infatti, attaccando, per l’ennesima volta, magistrati, costituzione e consulta, ha dichiarato che la condanna a pagare 750 milioni alla CIR per il lodo Mondadori è una rapina a mano armata. I lettori consapevoli sanno, invece, che la vera rapina è stata operata, sottraendo la casa editrice Mondadori a De Benedetti, tramite la corruzione del giudice Metta. Per questo reato, vennero condannati i legali Previti, Pacifico e Acampora e lo stesso giudice Metta, tranne Berlusconi, per prescrizione del reato. Tutto ciò accade nel mentre il Parlamento italiano è stato impegnato a votare le ultime leggi ad personam per il premier, dopo avere votato, facendo ridere il mondo intero, per un presunto conflitto di attribuzioni, sul presupposto che il presidente del consiglio credeva che Ruby rubacuore fosse la nipote di Mubarak. A questo è ridotto, ahimè, il nostro Paese. Mi sovviene il dialogo illuminante di un libro uscito qualche anno fa, dal titolo “L’albero del Barbagianni” di Paolo Erasmo Mangiante, nel quale don Achille, genero del barone Bonfiglio, nobile famiglia sciacchitana, rispondendo all’interlocutore che si lamenta dell’atteggiamento passivo e apatico dei siciliani, dice che il problema non è nella razza ma nella rappresentanza. Tutto ciò che accade -sostiene don Achille- dipende dal fatto che se si fanno votare analfabeti e corrotti, il risultato è di avere quella casta di governanti piuttosto che dei filosofi e saggi come auspicava Platone. Ora, a parte che l’attuale legge elettorale, definita “porcata” dallo stesso suo autore che, quindi, si definisce “porco”, non ci permette di scegliere i nostri candidati, che vengono scelti a tavolino dalle burocrazie di partito, si pone effettivamente un problema, appunto quello della rappresentanza. So già che quanto sto per dire susciterà vivaci polemiche, ma vi prego di rifletterci senza pregiudizi. Dico subito che è lungi da me mettere in discussione un principio basilare della democrazia, cioè il suffragio universale, né tanto meno sostituire il criterio antidemocratico del diritto di voto in base al censo con un altro fondato sull’istruzione. Esiste, comunque un problema di trovare soluzioni adeguate per rendere la democrazia fattuale e sostanziale. Per questo penso che si debba avviare una riflessione. Sento da molto tempo parecchie persone che non sono più disposte ad accettare che il proprio voto valga quanto quello di chi non ha alcuna capacità di scegliere e si fa pilotare dal potere mediatico controllato dal premier o da gruppi di potere in genere. Il voto è un architrave della democrazia, perché decide chi ci deve governare. Però resta un fatto astratto e una vera e propria finzione se poi per i seguenti 5 anni non puoi né controllare né revocare il mandato ai rappresentanti. E già questo fatto postula un ripensamento. Ma occorre, a mio parere, riflettere su un altro fatto. Io penso che l’esercizio della cittadinanza attiva e quindi anche del voto debba essere l’espressione di una consapevolezza politica. Uno non può fare l’avvocato se non ha competenze giuridiche, non può fare il medico senza avere studiato medicina, non può guidare la macchina senza avere fatto un tirocinio e superato un esame per ottenere la patente e si potrebbe continuare. La politica, che decide la nostra vita, è forse meno importante? Non sarebbe, forse, il caso di pensare di stabilire alcuni rimedi, o intervenendo sull’elettorato attivo o su quello passivo o su entrambi? Questa non è una domanda retorica ma è uno stimolo a una riflessione. Credo che vi sia un principio generale, direi consolidato, secondo cui chi ha più informazioni e conoscenze ha una maggiore capacità di discernere e di scegliere. Ora a me pare una mortificazione della democrazia il fatto che il voto di chi non legge i giornali, di chi non esercita mai la cittadinanza attiva, possa poi andare a votare con scienza e coscienza. Nell’antica Grecia, dove vi era la democrazia diretta, decidevano coloro che partecipavano attivamente alle assemblee. Ritengo che se costringessimo i nostri parlamentari a fare, finalmente, una riforma elettorale che prevedesse, a livello locale, regionale e nazionale, delle vere elezioni primarie, cioè con rappresentanti scelti da assemblee di cittadini, dove si discutesse anche di programmi, questa pratica politica democratica, fatta di confronti, dibattiti, discussioni, porterebbe, nel tempo, a una maggiore maturazione della coscienza di tutti, a occupare sempre più lo spazio pubblico e a diffondere sempre più la cittadinanza attiva, con una grande crescita della democrazia. Volendo chiudere con un esempio, penso che in un momento come questo dove si sta facendo strame della democrazia, della costituzione e dei diritti, assemblee cittadine in tutta Italia potrebbero costringere i deputati a dimettersi e andare a nuove elezioni. Cosa che oggi dovrebbero fare i deputati dell’opposizione e il nostro presidente della repubblica sarebbe costretto a sciogliere le Camere. Ma, come ben pensate, non ci pensano neppure lontanamente, così come se si andrà alle elezioni con la stesa legge elettorale, non penseranno neanche a fare scegliere i candidati alle assemblee, magari di iscritti ai partiti. Saranno le oligarchie di partito a scegliere i deputati a tavolino come la volta scorsa.

sabato 19 marzo 2011

lettera a Bersani

Gentili on.le segretario Bersani, on.le Rosy Bindi,
non so se rivolgermi a voi dandovi del Lei o del tu come usava una volta, quando ci si chiamava compagni. Eppure quella parola, caduta in disuso, era così ricca di simboli e cioè di significati profondi (coloro che hanno in comune il pane, che condividono valori e aspirazioni comuni).
Innanzi tutto, mi presento. Sono un ex docente universitario in pensione, che, oggi, privato da ogni esercizio della cittadinanza attiva, perfino della possibilità di votare, cerco di esprimere le mie idee all’interno del movimento “Un’altra storia” di Rita Borsellino, ma soprattutto scrivendo. Alla politica e alla democrazia, in particolare, ho dedicato, negli ultimi anni, tre libri, uno per i tipi della Franco Angeli, uno con la Sellerio e uno con la Luiss university. Ho vissuto tra Roma e Mazara del vallo e sono stato anche candidato nel lontano 1972, come indipendente nel PCI nella circoscrizione della Sicilia occidentale, perché invitato da Lucio Lombardo-Radice e da Enrico Berlinguer, come facente parte allora del gruppo dialogo cristiani-marxisti e della rivista “Religioni Oggi-Quale società”, diretta da Alceste Santini. Più recentemente sono stato candidato a sindaco della mia città. Queste brevi notazioni personali, non già per parlare della mia lunga vicenda politica, di uomo che ha sempre cercato di agire con coerenza e spirito libero, che ha sempre cercato di testimoniare gli ideali di giustizia, uguaglianza, libertà, rispetto della dignità della persona, ma per sottolineare il senso d’impotenza e di frustrazione che tanti, come me, avvertono di fronte alla gravità dei problemi del Paese e alla loro permanente non-soluzione, mentre si vedono sempre prevalere le ragioni dell’interesse personale, dell’arrivismo, della selezione all’incontrario della dirigenza politica. Vi faccio un esempio per tutti, che è emblematico di tutto il resto. In Germania, dopo la caduta del muro, c’era uno squilibrio tra est e ovest superiore a quello tra nord e sud italiano. Ebbene, in meno di un ventennio quel divario è stato annullato. In Sicilia, sono arrivati, per decenni, e continuano ad arrivare tanti soldi, prima dai vari carrozzoni tipo cassa del mezzogiorno e da alcuni anni dall’Europa, per creare infrastrutture e sviluppo. Ebbene, quei soldi sono stati sprecati in tanti rivoli mafiosi e clientelari, ma continuano a mancare le strade, le ferrovie, i porti e si potrebbe continuare. Di contro, il governo nazionale ora ci fa pagare tutte le autostrade siciliane e la Salerno-Reggio Calabria, pur non avendo percorsi alternativi se ci vogliamo muovere. Il Governo regionale, mentre non utilizza nemmeno i fondi europei e spreca soldi in prebende clientelari, poi colma i deficit aumentando l’addizionale Irpef regionale e così fanno province e comuni, aggravando la condizione di lavoratori a reddito fisso e pensionati.
Vi scrivo questa lettera, che pubblicherò anche sul mio blog e su face book, perché ho votato alle primarie per Bersani e voglio farVi giungere quello che è un sentire comune tra le persone che frequento.
Dopo l’89, l’ex PCI è precipitato in una crisi d’identità profonda. Nel volere recidere ogni legame con il c. d. socialismo reale, anziché intraprendere un percorso di elaborazione di un progetto nuovo di società, con risposte adeguate alle novità della globalizzazione neoliberista, ha finito per buttare con l’acqua sporca anche il bambino, abbandonando quei valori che contraddistinguevano l’identità della sinistra alla luce delle categorie classiche enucleate da Norberto Bobbio.
Il risultato è stato un’omologazione di comportamenti, linguaggi, pratica politica e l’assenza di una progettualità politica alternativa, che si è tradotta in una sorta di complesso d’inferiorità e in uno sforzo a dare garanzie e volere dimostrare di essere più neoliberisti della destra, senza mettere al centro la salvaguardia di beni comuni fondamentali e la scelta di trovare un giusto equilibrio tra uguaglianza e libertà.
Oggi, alle persone non sono più chiare le ragioni, i valori e i contenuti che distinguono la destra dalla sinistra. I cittadini vogliono sapere distintamente quale è la vostra idea di società partecipativa, di giustizia, di uguaglianza, di scuola, di politica fiscale, di sanità. Il governo Prodi, per due volte, non ha fatto intravvedere una chiara politica a favore delle classi più deboli, degli ultimi. La maggioranza di centro-destra sta mettendo le mani dappertutto con una chiara e consapevole scelta di campo classista. So che il conflitto di classe viene considerata oggi una categoria novecentesca. Come si può chiamare una società in cui il conflitto tra capitale e lavoro è tutto sbilanciato dalla parte dei ricchi, dove le disuguaglianze sono cresciute a dismisura, dove le tasse gravano soprattutto su lavoratori dipendenti e pensionati, dove i lavoratori sono sempre meno protetti, dove corruzione ed evasione valgono il valore di 10 finanziarie e potrebbero azzerare il nostro debito pubblico?
Provenendo dall’esperienza del c. d. dissenso cristiano (son stato uno dei fondatori dell’agenzia Adista), ho creduto nel progetto d’interazione-ibridazione tra i valori della tradizione marxiana e del cattolicesimo democratico e sociale. Ma questo sarebbe dovuto essere il risultato di un processo di rimescolamento delle carte, di una rielaborazione-ristrutturazione dal basso, attraverso un dialogo e dibattito diffuso dalla periferia al centro e in tutte le microstrutture della società, determinando un vasto processo di democratizzazione e di socializzazione e orizzontalizzazione della politica, ed invece si è risolto, di fatto, in una sommatoria verticistica di burocrazie. Inoltre, è mancato anche il progetto: un’altra idea di società, di economia, che privilegi i beni comuni e metta al centro il principio di solidarietà operante, attraverso una maggiore giustizia e una maggiore uguaglianza.
Sono convinto che non si cambi un partito né se ne costruisca uno nuovo se non si opera un processo di rinnovamento totale, con un progetto di società chiaro e distinto, stimolando al massimo l’esercizio della cittadinanza attiva e rinnovando, per tale via, gli inamovibili e autoreferenziali dirigenti provinciali e locali che dominano le scene da sempre e che si adattano a tutte le stagioni.
E’ vero che il PD è l’unico partito che fa le primarie, anche se senza troppa convinzione, se sempre messe in discussione e senza un impegno per istituzionalizzarle, prendendo in considerazione anche le proposte dal basso. E’ vero anche che c’è la legge elettorale “porcata” e che voi da soli non la potete cambiare. Ma è, altresì, vero che nulla impediva, durante le ultime lezioni politiche, che voi apriste una grande consultazione dal basso per la scelta di programmi e candidature. Invece, sia al PD che alla c.d. sinistra radicale, bene è sembrato nominare dall’alto i futuri deputati, col risultato, tra l’altro, di scegliere, talvolta i candidati senza tenere conto della loro storia e di trovarsi deputati, che cambiano casacca (Veltroni in queste scelte è un campione) o che prendono tangenti o che si trovano inquisiti, e di avere perso anche quella “diversità”che aveva contraddistinto nel passato il vecchio PCI. Oggi si riparla di elezioni e la legge elettorale sarà sempre quella. Mi auguro che questa volta, facciate quel che non avete fatto la volta scorsa. A mio modesto avviso, aprire un grande dibattito dal nord al sud del Paese, stimolare al massimo la partecipazione è l’unico modo per fare uscire dalla disaffezione e dal disamore per la politica quell’ampia percentuale di non-votanti e di indecisi, soprattutto giovani, ed è anche l’unica maniera per vincere.
Assai cordiali saluti
Piero di giorgi