venerdì 3 giugno 2011

Report dalla Palestina

Non mi capitava dal 2001, tre mesi dopo l’11 settembre, all’aeroporto di Miami, in transito per il Guatemala, quando sono stato sottoposto a un controllo in tutte le parti del corpo e per un lungo tempo. Mi sembrava la stessa atmosfera al terminal n. 5 di Fiumicino, il 12 maggio, in attesa di partire per Tel Aviv. Due ore d’interrogatori e di controlli. Finalmente c’imbarchiamo. Siamo una delegazione di sei persone (Gian Luca, Loretta, Franco, Carla, Tullio e io) organizzata dalla Provincia di Roma in collaborazione con la CGIL di Modena e un “Ponte per”, con lo scopo di monitorare alcuni progetti della cooperazione italiana in Palestina.
All’aeroporto di Tel Aviv, dove giungiamo dopo 3 ore e un quarto, troviamo Meri e Davide, due amici cooperatori, coi quali ci avviamo al campo profughi di Betlemme, dove alloggeremo tre giorni presso l’IBDAA Cultural Center. Ci viene comunicato dal consolato che non c’è il permesso per Gaza e che se ne parlerà Domenica 15. Il pomeriggio è occupato da una scarpinata sulla collina, dalla quale si può ammirare Betlemme e la valle del Giordano. Prima di cena, insieme a Giorgio, un amico fotografo, che opera in Palestina, mi reco a visitare la Chiesa della natività al centro di Betlemme. Un buon ristorante panoramico ci fa gustare la buona cucina palestinese. Di ritorno al campo dove dormiamo, troviamo nella piazzetta un’atmosfera festosa di musica e danza in occasione di un matrimonio. Invitati, partecipiamo per un’oretta alla loro festa.
L’indomani mattina, partiamo per Gerusalemme. E’ l’antivigilia della Nakba, la ricorrenza festosa per Israele, perché segna la nascita del suo Stato nel 1948, infausta per i Palestinesi, per i quali comincia la tragedia dell’occupazione e dei soprusi. C’è una manifestazione dei palestinesi di fronte all’ingresso della porta di Damasco e tanta polizia israeliana in assetto di guerra. Poi c’inoltriamo per il Suk di Gerusalemme, attraverso la via Dolorosa fino a giungere alla Basilica del Santo Sepolcro e della resurrezione. Dopo una breve visita, passiamo dal Muro del pianto, dove assistiamo per un po’ al rituale ebraico della sbattuta della testa al muro.
Interessante la visita, nella mattinata del 14, al Dialogue cultural center, dove abbiamo interloquito con il presidente, lo scrittore Nasser Iberahine. Il centro è composto d’intellettuali israeliani e palestinesi, i quali, oltre a dialogare tra loro per trovare punti di convergenza, cercano di fare opera di politicizzazione e chiarificazione per giungere a una lotta su obiettivi comuni, benché difficile finché ci sarà l’occupazione. E tuttavia, per la prima volta, è stato organizzato un convegno a Ebron con molti partecipanti. Quanto ad Hamas, Nasser ci ha detto che si tratta di un movimento politico realistico e pragmatico, anche se vi sono gruppi integralisti che hanno ucciso altri palestinesi, affermando, di contro, la laicità cui s’informa l’azione del suo centro. Riguardo al cambiamento avvenuto in Egitto, ha sottolineato che Mubarak era un fantoccio dell’America e che oggi l’Egitto può giocare un ruolo importante nel conflitto israelo-palestinese. Non manca di sottolineare l’assenza di una politica europea per il Medio-Oriente, totalmente appiattita sugli Stati Uniti.
Il pomeriggio, dopo avere visitato il centro e il suk di Betlemme, abbiamo fatto un giro per il campo profughi “Aida”, dove abbiamo assistito anche a una gara di aquiloni. Terribile il muro che lo circoscrive, dietro al quale c’è la tomba di Rebecca. Siamo stati a casa di un ragazzo amico di Meri, la cui casa è rimasta al di là del muro. La serata si è conclusa assistendo a un concerto, nell’università pubblica di Betlemme, con complessi di palestinesi residenti, palestinesi residenti in Siria e in Libano, che hanno ripercorso canzoni e musiche della loro storia e tradizione, con grande partecipazione di pubblico.
Il 15 maggio è la data in cui il consolato ci aveva comunicato che potevamo andare a Eretz per passare alla striscia di Gaza. Alzata alle cinque e andiamo con un pulmino a Ramallah, da dove, con due macchine, ci rechiamo al check-point di Herez. Ma il 15 maggio è il giorno della Nakba ed è prevista una mobilitazione generale dei palestinesi verso tutti i confini di Israele e quindi anche da Gaza verso Eretz. Capiamo subito che, contrariamente a quanto dettoci dal funzionario del consolato, non avevamo alcun permesso per entrare. Presentiamo i passaporti, ci fanno accomodare negli uffici del confine. Dopo un poco, avvertiamo un certo nervosismo. Vengono dei soldati israeliani e ci fanno uscire, intimandoci di allontanarci. Non facciamo in tempo a spostarci nella zona di sosta dei taxi, che cominciamo a sentire una sequela di botti, che sembrano bombe. Sapremo dopo che si trattava di pallottole sparate dagli israeliani, che oltre a spappolare l’obiettivo, fanno partire delle lamine, come dei piccoli dischetti che tagliano tutto ciò che incontrano. Sentiamo sopra di noi una squadriglia di caccia e ci sono anche gli elicotteri apache e anche una contraerea. Sentiamo anche le sirene delle ambulanze e comprendiamo che qualcosa di grave sta avvenendo al di là del muro. Noi siamo preoccupati e impotenti e decidiamo di trasferirci presso il posto-ristoro che si trova a due Km da lì. Sapremo poi che ci sono stati due morti e oltre 100 feriti, tra cui alcuni anche gravi e poi 20 morti sul confine siriano e libanese, tra cui anche bambini, solo perché i manifestanti si erano portati sotto il muro di confine. Sapremo anche che dai consolati europei, tranne dal nostro, era stato diramato un allarme di rischio rapimento per gli italiani. Ci dicono anche che il check-point sarà chiuso per 24 ore.
Ce ne ritorniamo a Ramallah, ci prendiamo un albergo. Il resto del viaggio ruota intorno all’attesa per l’ingresso a Eretz-Gaza, senza potere programmare altre iniziative. Il 16 gli amici del gruppo tornano a Eretz nel vano tentativo di entrare. Io sono rimasto e ho approfittato per fare un giro a Ramallah insieme a Davide, un giovane impegnato nella cooperazione che vive nella porta accanto alla casa di Meri e Marina.
Il 17 maggio, dopo vari contatti con il consolato, visitiamo una scuola nel campo profughi di Qalandiya, che raccoglie profughi del ’48 e i loro discendenti. Nei pressi della scuola, visitiamo la cooperativa di scarpe, borse e cinture di cuoio, in collaborazione con la ONG italiana “Vento di terra”. Nel pomeriggio visitiamo alcuni orti domestici nei villaggi di Isma e Al Azariya in Betania (luogo dove sarebbe avvenuta la resurrezione di Lazzaro) i cui progetti sono sostenuti dalla ONG italiana ACS, in collaborazione con l’associazione palestinese PARC (Palestinian Agricoltural Relief Committee), per aiutare le famiglie più bisognose, a cui gli insediamenti israeliani hanno sottratto i terreni di coltivazione e di pascolo. Abbiamo visitato anche una piccola associazione di donne, con cui collaborano anche donne israeliane e che si occupano di preparare pasti e confetture di frutta e verdura. Dopo una visita al muro che separa Al Alzariya da Gerusalemme, all’altezza del Monte degli Ulivi, siamo rientrati all’albergo della mezza luna rossa, dopo esserci consentita una spaghettata a casa di Meri. Verso le 23, 20, giunge, ormai inaspettata, la telefonata del consolato che ci comunica l’autorizzazione per passare a Gaza l’indomani molto presto. L’indomani è il 18 maggio, l’ultimo giorno di nostra permanenza in Palestina. Io avevo ormai preso la decisione di non andare. Ho approfittato per visitare Gerico, la valle del Giordano e il Mar Morto.
Gli altri amici della delegazione hanno incontrato i contatti di Gaza che li hanno portati a visitare i progetti di cui la delegazione della Provincia di Roma e altre associazioni sono cofinanziatori. Poi sono andati all’università pubblica di Al Quds, che accoglie 17 mila studenti di cui i due terzi sono donne. Poi la sera hanno incontrato il consiglio municipale di Beitlahiya.
Il 19 maggio è il giorno del nostro ritorno. Abbiamo l’aereo per Roma alle 18,50. Con Meri partiamo da Ramallah alle 11 per andare a Eretz. Quando arriviamo alle 13,00, il resto della delegazione aveva già passato i controlli e ci attendeva al posto di ristoro lì vicino, dove abbiamo preso un panino e un caffè. Alle 14 ci siamo diretti a Tel Aviv, sottoponendoci ai rigidi controlli e attendendo a lungo il nostro capogruppo Gian Luca Peciola a cui, con la scusa che aveva il timbro della Giordania sul passaporto, hanno fatto pagare caro il passaggio a Gaza, sottoponendolo a controlli corporali e del bagaglio, davvero avvilenti. Alle 21,30 locali siamo arrivati a Fiumicino, dove, a malincuore, ci siamo separati dai nostri compagni di viaggio coi quali abbiamo condiviso tante emozioni e chissà, forse siamo tornati più ricchi.
Che dire? E’ stata un’esperienza unica. Certamente diversa da chi va in Palestina da turista. Bisogna entrare dentro quella realtà per capire lo stato di prostrazione e di rabbia di un popolo che vive su un territorio occupato e costantemente rapinato, sottoposto a continui controlli. Nonostante il muro, si vedono abbarbicati sulle colline enormi agglomerati bianchi di case dei coloni, che sottraggono ulteriore terreno all’agricoltura e al pascolo.
Ma c’è un’altra cosa che mi sembra di dovere sottolineare e che forse spiega anche la situazione di stallo in cui da decenni si trova la questione palestinese. Arrivano soldi da mille rivoli e ciò ha permesso non solo fenomeni di corruzione che si sono manifestati sia nella dirigenza di Hamas e dell’autorità nazionale palestinese, ma anche il formarsi di una certa borghesia, il cui status stride con quello della popolazione dei campi e quella comune, che è molto critica verso la gestione autoritaria della loro dirigenza.
Tuttavia, si coglie una fase di nuova speranza e di forte determinazione e una grande consapevolezza, soprattutto nelle nuove generazioni, cresciute al di fuori delle divisioni e contrapposizioni di potere delle varie componenti della dirigenza palestinese. C’è ormai una volontà maturata nel volere giungere a proclamarsi Stato indipendente, probabilmente entro settembre. E che i tempi siano maturi, sembra abbiano trovato suggello nelle parole del nostro presidente della Repubblica, il quale, in Palestina negli stessi giorni in cui c’eravamo noi, ha annunciato l’apertura di una sede diplomatica palestinese in Italia.
Piero di giorgi

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