sabato 5 giugno 2010

La crisi mondiale e l'inettitudine dei governanti

piero di giorgi

Prima, per un lungo periodo, la crisi mondiale è stata negata. Poi, quando la bolla immobiliare e l'enorme quantità di massa finanziaria si è rivelata nella sua reale consistenza di un'immane mucchio di carta nominale senza alcuna relazione con la ricchezza reale, la crisi non si è potuta più nascondere. Si sono salvate una serie di banche d'affari, responsabili delle truffe e delle speculazioni, si è fatto pagare il conto agli ignari cittadini e, dopo un pò si è cominciato a dire che la crisi era ormai superata e che ricominciava la crescita. Ma era ancora una bugia. La crisi non è alle spalle, come vogliono farci credere, per il semplice fatto che si tratta di una crisi strutturale di un modello di sviluppo arrivato al capolinea. Molte banche sono ancora fortemente esposte, c'è in circolazione una massa finanziaria, almeno 5 volte al di sopra del valore dell'economia reale, che si muove, in mano a speculatori di ogni genere e che cerca di colpire gli Stati più deboli, fino a metterli a rischio di default. E' avvenuto in Grecia, ora in Ungheria e può capitare anche a noi. Da diversi mesi, i governanti dei Paesi più ricchi, tutti omologati alla bibbia dell'economia capitalista, al verbo della dittatura del mercato, del PIL e dello sviluppo senza fine, sotto la pressione dei padroni del vapore, non riescono a trovare delle regole comuni per controllare e tassare le banche, nè riescono, in balia ai loro ragionieri, a volare alto e percorrere nuove vie e alternative, fondate su uno sviluppo ecosostenibile, fondato su energie rinnovabili, che coniughi benessere economico e qualità della vita, che superi le spaventose disuguaglianze nel mondo e assicuri giustizia. L'economia, nata all'interno della cultura umanistica, è divenuta un'impostura, che tende a legittimare il potere dei più potenti. Disancorata dalla filosofia, dalla vita degli uomini in carne e ossa, è diventata una tecnica ragionieristica, che fa diventare i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. L'economia ha perso anche ogni contatto con il suo significato semantico (0ikos e nomia) e cioè di regole relative alla gestione e amministrazione della casa, di distribuzione della ricchezza, di rapporto tra uomo e ambiente. Ogni anno viene attribuito un premio Nobel per l'economia. Ma per cosa?, per quali meriti, se l'economia non è riuscita a debellare la povertà nel mondo, ad abbattere le disuguaglianze, a rendere il mondo degno di essere vissuto per miliardi di persone? Tutto ciò avverrà finchè i cittadini del mondo, partendo dal loro territorio, dalla loro città, non dicono basta, non si organizzano, non prendono in mano le sorti della propria vita, non cominciano a cacciare via i loro governanti, professionisti della politica, in ruolo permanente effettivo, per instaurare un potere diffuso, revocabile, controllabile.

domenica 16 maggio 2010

Crisi globale e questione meridionale

Crisi globale e questione meridionale
di Piero Di Giorgi

La crisi finanziaria che stiamo attraversando, con le ripercussioni sull’economia reale, ha mostrato, se ancora ce ne fosse bisogno, il vero volto della globalizzazione neoliberista e dei suoi corollari di un mercato senza regole e senza controlli.
La crisi, prima taciuta, poi annunciata a piccole dosi, negandone la reale gravità, progressivamente, è stata rivelata nei suoi aspetti più drammatici, pur senza saperne definire l’entità ed essere in grado di fare previsioni sui suoi esiti. Le oligarchie economiche e politiche, i banchieri e gli speculatori di ogni genere, che hanno determinato le condizioni dell’immane disastro, scaricandone le conseguenze sui più poveri del mondo, sulle classi lavoratrici e sulle classi medie, si comportano come se si trattasse di una crisi congiunturale, muovendosi secondo vecchie logiche, tendenti a ricostruire le condizioni di nuovi profitti e rendite, concedendo massicci finanziamenti alle banche, prime responsabili del crac, e addossando, come sempre l’onere sui lavoratori a reddito fisso e pensionati, mentre evasione ed elusione fiscale, paradisi fiscali prosperano tranquillamente.
Ed invece, a me pare che ci si trovi di fronte ad una crisi di sistema e perciò strutturale, che ci pone di fronte ad una biforcazione con esiti diametralmente opposti: sbocchi autoritari o democratico-partecipativi. Dopo la crisi del ’29 s’imboccò la prima strada. Oggi si tratta di costruire una democrazia sostanziale, ricostruendo lo spazio pubblico attraverso nuove forme della politica basate sulla partecipazione e su legami sociali solidaristici, su un’economia sociale e su una riconversione ecologica dei processi produttivi, a partire dal Mezzogiorno.
La “questione meridionale”è scomparsa da tempo dall’agenda politica ed è pressoché assente anche nel Parlamento europeo. Eppure c’è un mezzogiorno che non si è arreso e che si sente privo di rappresentanza politica. Bisogna rilanciare con forza la costruzione di una mesoregione mediterranea per affermare in termini alternativi la questione degli squilibri territoriali tra Nord e Sud. La rinascita del Sud passa inevitabilmente dall’assunzione di un ruolo di centralità del Mediterraneo, di cui si deve fare carico un’Europa democratica.
I soldi elargiti dall’Unione europea per il Sud sono stati spesso utilizzati per spese correnti e clientelari. Occorre che, nel periodo che resta fino al 2013, tali fondi siano vincolati al fine del suo sviluppo e delle necessarie infrastrutture, con controlli continui e tempi contingentati. Occorre anche, in considerazione del fatto che i tassi d’interesse al sud sono mediamente superiori di tre punti rispetto al nord Italia, che i prestiti per investimenti siano direttamente erogati dalla Banca europea e che gli interessi siano a carico della comunità europea. Occorrerebbe anche l’istituzione di banche di credito cooperativo e banche etiche, un sistema di cooperative agricole e di pesca, di investimenti nella conoscenza e nel turismo. Riconversione e sviluppo ecosostenibile dovrebbero essere gli obiettivi di tutte le forze progressiste dell’Europa meridionale, perché non vi può essere un’Europa di pace e di giustizia senza il rilancio di’un’iniziativa nel mediterraneo e verso il sud in tutti gli aspetti economici e politici. L’obiettivo dell’Europa deve essere, a mio modesto avviso, la creazione nel Mediterraneo di un’area economica sufficientemente vasta ed organica, che si proponga come modello di sviluppo alternativo a quello della globalizzazione neoliberista, uno sviluppo che si radichi nelle tradizioni territoriali, storico-culturali e ne esalti i valori solidaristici, di ospitalità, di creatività di quell’area. Sarebbe auspicabile la creazione di una banca mediterranea e di un’Università mediterranea.
La politica dell’attuale maggioranza ha, sin dall’inizio, trasferito soldi dal meridione e in particolare dalla Sicilia, a cominciare dai fondi destinati alle infrastrutture viarie e ferroviarie, per abolire l’ICI, e poi i fondi Fas per destinarli ai terremotati. Penso poi alla riforma del federalismo fiscale, che mette a rischio la spesa sociale e dei servizi, ma che può anche sterilizzare per sempre quei principi costituzionali a garanzia dell’uguaglianza tra le persone e territoriali, previsti dal combinato disposto degli artt. 3 e 119.
Sono convinto che un vero cambiamento nel senso dianzi indicato possa realmente realizzarsi se si riesce a ricostruire le condizioni per una partecipazione attiva alla vita della città, dove i cittadini possano incontrarsi, confrontarsi e prendere decisioni condivise, la cui premessa è la riappropriazione della soggettività e della responsabilità dei cittadini del Sud e la riaggregazione di un blocco subalterno, liberato dai ricatti clientelari e dai voti di scambio, attraverso l’esercizio di azioni collettive, per impedire scempi ecologici, abusivismo, salvaguardia del lavoro, lotta per i diritti sociali, quali la scuola, la salute, l’abitazione. Un ruolo importante, in tale direzione, dovrebbero svolgere intellettuali e forze progressiste ma anche una chiesa riconvertita, che ritorni alla fedeltà ai principi di liberazione del vangelo, riprendendo la sua collocazione originaria a fianco degli ultimi, per testimoniare la giustizia.

domenica 9 maggio 2010

Dispersione scolastica

Lo studio dell’invalsi e la piaga della dispersione scolastica

di Piero Di Giorgi

Lo studio dell’Invalsi (Istituto nazionale di valutazione del sistema scolastico nazionale), presentato l’8 febbraio all’università Milano-Bicocca, sui livelli di apprendimento in seconda e in quinta elementare dell’italiano e della matematica, prospetta un quadro allarmante della situazione della dispersione scolastica nel Sud e in particolare in Sicilia. Il divario aumenta tra la seconda elementare e la quinta. Infatti, il divario, per l’italiano, in seconda elementare è del 4,7 al Nord, del 8,9 al centro e del 17,5 al Sud, e, per la matematica, del 7,2 al Nord, del 8,4 al centro, del 28,3 al Sud, in 5^ elementare, per l’italiano, è al 7,5 al Nord, al 8,7 al centro e al 25,2 al Sud, mentre, per la matematica, è al 9,3 al Nord, al 18,3 al centro e al 37,1 al Sud.
Lo studio conferma, in qualche modo quanto già aveva messo in luce l’indagine OCSE-PISA del 2008, secondo cui il Nord rappresenta l’area in cui si riscontrano i migliori risultati degli alunni, mentre la Sicilia fa registrare tra i risultati peggiori del Sud, con una percentuale di dispersione, nel 2007, del 26%, con un tratto distintivo che evidenzia che il fenomeno colpisce più i maschi che le femmine.
Col termine dispersione scolastica, che dagli anni ’80 ha sostituito quello di “mortalità scolastica”, s’indica l’evasione scolastica, il drop-out o abbandono scolastico, l’irregolarià o rallentamento del percorso formativo. In verità, si tratta di una denominazione addolcita di un fenomeno che, nell’imperversare di un’altra epoca storica e culturale, veniva chiamata “selezione classista” nella scuola, dicitura ancora utilizzata, fino a qualche anno fa nelle circolari scolastiche dello stesso ministero della P. I. Infatti, dietro questo fenomeno, ci sono quasi sempre situazioni di disagio sociale e di emarginazione, che costituiscono, in molti casi l’anticamera della devianza.
La scuola, che dovrebbe essere luogo di formazione, di crescita e di inclusione sociale, di fatto, non offre pari opportunità a tutti gli alunni, in particolare ai ceti sociali svantaggiati. Il che vuol dire che il diritto allo studio, riconosciuto dalla nostra Costituzione e sancito dal legislatore, soprattutto con la legge n. 517 del 1977, viene vanificato.
Sembra ovvio sottolineare che il problema della dispersione scolastica si traduce in un vero e proprio spreco di potenzialità e risorse umane, che costituisce un grave ostacolo allo sviluppo della Sicilia e chiama in causa responsabilità gravi dei nostri governanti, che, incuranti del fatto che la conoscenza viene oggi considerato il nuovo fattore di produzione e conditio sine qua non per lo sviluppo di un Paese, hanno sempre più lesinato e tagliato le risorse destinate alla formazione.
Per arginare il fenomeno sono stati attivati osservatori provinciali sulla dispersione, che collaborano con le scuole di ogni ordine e grado e nel 2006 è nato anche lo’osservatorio regionale permanente, ma non hanno dato i risultati sperati. Negli anni ’90 sono stato chiamato dal Provveditorato di Trapani a far parte, in qualità di esperto, dell’osservatorio provinciale, esperienza che mi ha portato a scrivere, forse, il primo libro organico sulla dispersione scolastica, che è stato distribuito in tutti provveditorati d’Italia, nel quale analizzavo le cause del fenomeno e proponevo alcune idee, che ritengo ancora valide.
Innanzitutto, nell’affrontare il fenomeno della DS, bisogna abbandonare la tradizionale ottica causale-lineare per fare posto a un’ottica circolare e sistemica. La scuola è un sistema formato di insegnanti, alunni, personale ATA, dirigente scolastico ed è in interazione costante, a sua volta, con altri sistemi come la famiglia, il quartiere, l’azienda sanitaria, l’ente locale; tutto ciò comporta che una serie di fattori: cause esterne (fattori socio-economici e culturali della famiglia; cause personali dell’alunno, quali salute, timidezza, scarsa motivazione e bassi livelli di aspirazione e cause legate al territorio come carenze di servizi socio-sanitari, edilizia scolastica, inadempienze degli enti locali, carenze dei servizi socio-sanitari, lavoro minorile ecc.), e cause interne alla scuola (mancanza di laboratori, discontinuità educativa verticale orizzontale, carenza di qualificazione dell’azione didattica, assenza di rapporti continuativi scuola-famiglia, ma soprattutto il mancato uso di una corretta comunicazione educativa come fondamentale risorsa didattica) intervengono come concause a determinare la D.S. In particolare, per quanto riguarda la relazione pedagogica, prevale un’epistemologia di tipo causale-lineare,che si concreta in una relazione trasmissiva, verticale e selettiva. L’insegnante, depositario di sapere, lo trasmette all’alunno, il quale deve apprenderlo. Se non vi riesce, la colpa è sua perché non studia, non capisce, è poco intelligente, è svogliato. E’ basata sulla separatezza osservatore-osservato e l’insegnante è visto come neutrale ed esterno. L’ottica circolare, invece, tiene conto di una multifattorialità che interviene sistemicamente a determinare un risultato. Non c’è separatezza tra osservatore e osservato. L’insegnante è parte integrante del sistema e perciò del successo o dell’insuccesso dell’alunno. Si fonda sull’orizzontalità della relazione, che è personalizzata e basata sull’autenticità. L’insegnante è motivato a un elevato investimento emotivo e si mette continuamente in discussione. La relazione pedagogica diviene processo formativo e rimotivante per gli alunni. L’educazione non è solo centrata sulla cognizione ma anche sull’affettività, che, anzi, è precondizione e l’energia attraverso passa qualsiasi apprendimento.
In sostanza, la scuola non può essere solo una scuola dei contenuti e dei programmi, ma deve essere soprattutto un ambiente educativo e di apprendimento, dove, in primo luogo si sta bene insieme, una scuola-laboratorio, che includa il territorio intorno ad essa, trasformandolo in una grande aula decentrata. Una scuola cioè motivante e coinvolgente, essendo quello della motivazione il problema centrale insieme a quello del linguaggio. Il linguaggio povero di cui sono in possesso le classi marginali o gli immigrati, che usano prevalentemente il dialetto, costituisce un ostacolo all’apprendimento, perché il linguaggio, come ha messo in luce Lev Vygotskij, da mezzo di comunicazione esterna, si trasforma in struttura mentale, in strumento di categorizzazione. La parola è linguaggio e pensiero al tempo stesso, perché il significato è l’unità di base componente del pensiero verbale. L’insufficienza di concetti e di generalizzazione adeguata non rende possibile la comunicazione. La scuola dell’infanzia è di fondamentale importanza, non solo come luogo di socializzazione, ma soprattutto perché essa assolve a una funzione di decondizionamento precoce delle disuguaglianze di origine familiare.
Il non sapere garantire pari opportunità a tutti gli alunni chiama in causa le responsabilità dei governi e la loro politica dissennata di tagli alla scuola pubblica in termini di servizi come il tempo pieno, di insegnanti di sostegno, di edilizia scolastica, di formazione degli insegnanti e costituisce certamente un danno soprattutto per gli alunni più svantaggiati, risultando funzionale alla riproduzione sociale delle disuguaglianze.

giovedì 6 maggio 2010

Il Bullismo, un fenomeno in crescita.
Piero Di Giorgi
Negli ultimi anni, sono molto aumentati gli episodi di bullismo e di conseguenza si sono intensificati anche gli studi sul fenomeno, che, in Italia, sono cominciati soltanto nel 1995. Ma cos’è il Bullismo?
Parola dall’etimologia incerta, probabilmente di derivazione regionale. Indica le prepotenze tra ragazzi a scuola; si tratta di un tipo di comportamento aggressivo caratterizzato dall’intenzione di arrecare un danno all’altro, da un carattere di continuità nel tempo e da una relazione asimmetrica tra il bullo e la vittima, la quale, di solito, risulta un soggetto debole e spesso incapace di difendersi.
All’interno del bullismo scolastico si può fare rientrare, a mio avviso, anche quello delle molestie sessuali. La molestia è espressione di una manifestazione di atteggiamenti fondamentalmente ostili verso le donne. L’idea del maschio come dominante ed aggressivo è centrale nella comunicazione interpersonale e la molestia può essere agita come un fatto non consapevolmente ostile, ma come un modo di conformarsi ad uno stereotipo di ruolo maschile.
Gli studi sul bullismo hanno evidenziato che il comportamento aggressivo è più frequente nella scuola elementare e diminuisce nella scuola media e con l’adolescenza, continuando, tuttavia, a persistere la violenza dei ragazzi che, nelle età precedenti, avevano manifestato un livello alto di aggressività.
Un’altra caratteristica che è stata evidenziata è che gli episodi di bullismo avvengono, nella maggior parte dei casi, alla presenza dei coetanei. I componenti del gruppo possono ricoprire ruoli diversi: agire insieme al bullo, essere suoi sostenitori, semplici osservatori e raramente intervenienti per fermare le prepotenze. In sostanza la dominanza del bullo sembra essere rafforzata dal supporto dei sostenitori, dalla deferenza di coloro che hanno paura e dalla mancanza di opposizione della c.d. maggioranza silenziosa.
E’ importante sapere che il bullismo non è un male incurabile. Ma, prima di vedere come è possibile intervenire, vorrei brevemente soffermarmi ad analizzare le cause del bullismo, i meccanismi psicologici che determinano certi atteggiamenti di prepotenza e sopraffazione. Gli studi psicologici hanno ormai rifiutato ipotesi interpretative di tipo causale-lineare a favore di modelli probalistici e multifattoriali. Si ha ragione di ritenere che certamente intervengono, in modo sistemico, caratteristiche di personalità, delle relazioni familiari e della dinamica del gruppo classe.
E’ un fenomeno che riguarda quasi in maniera esclusiva i maschi, ma vi sono casi in crescita in cui c’è un’arancia meccanica al femminile, in rosa. Nei maschi, spesso, l’attacco fisico si manifesta come esibizione di forza, legata all’esigenza di fare colpo sulle ragazze di fronte al pubblico del gruppo. Si tratta, quindi, di copioni stereotipati, che evidenziano difficoltà relazionali, legate alla scarsa elaborazione di competenze sociali più evolute; anche visibilità sociale, in una società dell’apparire. Per coloro che non trovano altri modi per affermare se stessi è un modo per sentirsi riconosciuti sia individualmente che come gruppo. In maggioranza sono ragazzi che provengono da contesti familiari e scolastici che offrono minori occasioni di realizzazione positiva di sé. C’è un’incapacità cognitiva ed emotiva di rendersi conto di ciò che le proprie azioni possono provocare sia a se stessi che agli altri; cioè soggetti che non hanno interiorizzato e strutturato una temporalità organizzata, ma sono centrati soprattutto sul presente, prigionieri dell’immediatezza, dell’impulsività, senza una valutazione degli effetti a medio e lungo termine del loro comportamento. Ma anche una scarsa capacità di decentramento, cioè di mettersi nei panni degli altri e di rappresentarsi le conseguenze delle proprie azioni sui vissuti degli altri. Atteggiamenti riconducibili ad un’insufficienza educativa.
Innanzitutto, il bullismo si caratterizza come un sistema dinamico in cui si determina un accoppiamento strutturale tra vittima e persecutore; bulli e vittime sono accomunati da problemi disadattivi. Le vittime si distinguono soprattutto per una scarsa padronanza emotiva, mentre i bulli sono caratterizzati dal disimpegno morale e in particolare da un meccanismo di deumanizzazione.
Per superare l’inibizione a fare del male agli altri, ad un nostro simile, dobbiamo ricorrere a meccanismi cognitivi ed emotivi che annullano l’umanità dell’altro. Degradiamo l’altro ad una subumanità, ossia lo consideriamo altro da noi, diverso, inferiore per sesso, per razza, per religione, per livello sociale, oppure lo consideriamo barbaro e disumano per la minaccia che da lui proviene e per cui lo collochiamo ad un livello non degno di umanità. Ciò fa sì che la nostra violenza non venga ritenuta riprovevole, perché attuata non nei confronti di un essere umano ma di un essere inferiore, degradato a livello di una cosa. Un meccanismo, cioè, che permette d’infierire sulle vittime senza provare sensi di colpa. Questo meccanismo di autoassoluzione testimonia, peraltro, che questi ragazzi non sono insensibili ai principi morali e a valori sociali. Spesso, per rafforzare l’operazione di disimpegno morale, s’invoca l’obbedienza all’autorità.
Alcune ricerche hanno sottolineato caratteristiche personologiche, come l’aggressività generalizzata, l’impulsività, la scarsa empatia, l’atteggiamento positivo verso la violenza, il comportamento prepotente per quanto riguarda i bulli. Di converso, l’ansia, l’insicurezza, la scarsa autostima caratterizzano le vittime. Bisogna, tuttavia, dire che le caratteristiche personologiche trovano il brodo di coltura negli ambienti di crescita, in cui noi adulti abbiamo le principali responsabilità.
Molti studi hanno messo in luce che, alla base dei comportamenti di bullismo, abbiano un peso gli stili educativi parentali, sia quello autoritario che quello permissivo, postulando la necessità di uno stile educativo autorevole, che contemperi e coniughi affettività e regole, controlli e richieste, fondato sul rispetto e sull’ascolto. Uno stile educativo autorevole promuove le capacità di assumersi responsabilità e di rinegoziare, attraverso il dialogo e il confronto, regole e ruoli. Le regole familiari, insieme all’affettività, svolgono un importante ruolo per uno sviluppo armonico della personalità. In pratica, i diversi stili educativi possono essere fattori di protezione o di rischio.
Altre ricerche hanno messo in luce la dinamica dell’aula scolastica come elemento scatenante di certe dinamiche aggressive. Se il fenomeno è correlato alla dinamica interna del gruppo, l’intervento deve essere mirato a livello di gruppo-classe e di sistema scolastico nel suo complesso, al fine di incidere sulle dinamiche interne del gruppo stesso ma anche sulle componenti interpersonali che sono alla base di condotte riprovevoli e di relazioni negative tra i compagni.
A livello legislativo non esiste alcuna legge che protegge e tutela gli studenti. I programmi ministeriali non prevedono alcun intervento educativo strutturato per formare i ragazzi e le ragazze al rispetto delle persone diverse, per genere, per gruppo etnico o religioso, o sociale.
La scuola, in quanto istituzione educativa, svolge un ruolo primario, poiché essa è, durante l’adolescenza, l’istituzione che più incide sull’elaborazione dell’immagine di sé. Coloro che hanno un buon inserimento scolastico e vivono positivamente l’esperienza dello studio, giudicata utile per la vita e per l’inserimento lavorativo nella società, si riconoscono maggiormente nelle regole sociali. La scuola non può esimersi dal trasmettere una cultura del rispetto e favorire quella maturazione emotiva che sta alla base dei rapporti maturi tra individui, nella consapevolezza dei bisogni e dei diritti dell’altro. Essa dovrebbe, sin dalla fase dell’accoglienza, stabilire una sorta di contratto sociale, richiedendo ai ragazzi il rispetto di precise regole, chiaramente esplicitate e motivate, la cui violazione deve essere seguita da sanzioni adeguate e certe. L’elaborazione di un insieme condiviso di regole, di diritti e di doveri reciproci dovrebbe costituire uno dei compiti prioritari di ogni scuola. Ciò, oltre a contribuire a installare un’educazione alla tolleranza, farebbe compiere ai ragazzi un serio passo verso un’educazione all’etica della responsabilità, antidoto, non solo dei comportamenti devianti ma di tutti i comportamenti a rischio, contribuendo alla crescita di un sé differenziato ed adulto. Soprattutto la scuola superiore rappresenta, per i giovani, un momento critico per il processo di socializzazione ed in cui assumono atteggiamenti nei confronti delle relazioni interpersonali che poi restano stabili.
Nell’ambito dei programmi d’intervento sul bullismo, due esperienze risultano rilevanti: l’esperienza scandinava e quella inglese. Entrambe presuppongono il coinvolgimento attivo della scuola e delle diverse componenti scolastiche: alunni, insegnanti, genitori, personale non-docente.
Si tratta di avviare un processo di consapevolezza nei ragazzi sul problema delle prepotenze e di modificare gli atteggiamenti, costruendo un sistema di regole e di comportamenti contro le prepotenze. La scuola è il luogo per promuovere riflessioni di gruppo, in cui potere sviluppare competenze sociali e comunicative adeguate, darsi degli scopi ed assumersi degli impegni e responsabilità.
I temi su cui orientare la discussione sono: le esperienze personali; le motivazioni verso le prepotenze; che cosa si prova a fare o a subire le prepotenze da altri; le conseguenze del comportamento prepotente per la vittima e per il bullo; l’impatto delle prepotenze sulla famiglia, sulla vittima, sui testimoni, sugli attori della prepotenza, sul clima della scuola; i problemi morali connessi con il ruolo di osservatore delle prepotenze, i modi per fermare o contrastare le prepotenze.
Le ricerche hanno mostrato che la maggiore fiducia nell’insegnante, il livello di comunicazione che migliora progressivamente nelle classi indicano un cambiamento volto a costruire un clima di collaborazione, di rispetto e di convivenza democratica. In definitiva si tratta di attivare risorse individuali, sociali e collettive, al fine di realizzare una reale politica di prevenzione scolastica del bullismo e di ogni fenomeno di violenza, di non-rispetto dell’altro.

Il Bullismo

martedì 4 maggio 2010

La subcultura siciliana

Piero Di Giorgi

I Siciliani che, come me, per ragioni anagrafiche, hanno la possibilità di viaggiare con la memoria in un arco di tempo di diversi decenni, vivono il conflitto tra la sensazione d’immobilismo e di stagnazione cui si assiste in Sicilia e la velocizzazione del tempo e dei cambiamenti che caratterizzano la società contemporanea. Mi ricordo che, 50 anni fa, sentivo dire a mio padre che si vociferava della realizzazione di una serie di infrastrutture come il raddoppio e l’elettrificazione della linea ferroviaria Trapani-Palermo e Palermo-Messina, o di grandi vie di comunicazione stradale come la Mazara-Gela-Siracusa o la Mazara-Marsala-Trapani, o la soluzione del problema dell’acqua, che, in una regione come la nostra, dovrebbe abbondare. A distanza di decenni ci troviamo di fronte sempre gli stessi problemi e le noiose discussioni sulle priorità tra il ponte o le ferrovie e le strade. Ed allora non posso non pensare alla mala sorte di questa terra che ha avuto la triste ventura di avere, almeno dall’unità d’Italia ad oggi, queste classi dirigenti così miserabili, da pensare soltanto ai propri privilegi e che non hanno avuto e non hanno neppure l’orgoglio di lasciare un segno di qualche realizzazione nella loro città o nella loro regione, che giungono perfino a perdere, a livello locale e regionale, miliardi di Euro già stanziati, senza realizzare le relative opere.
Quel che più mi stupisce è come tutto questo non si traduca in rabbia da parte dei cittadini o come non vi siano né movimenti spontanei né opposizione politica ad uno stato di cose così intollerabile.
Ed allora provo a fare una qualche riflessione e a trovare una qualche motivazione a tutto ciò. Se si guarda alle società tradizionali ci si rende conto che esiste un nesso stretto tra variabili economiche e culturali nel determinare lo sviluppo, nel senso che le rappresentazioni collettive, trasmesse di generazione in generazione sotto forma di codici linguistici, morali o religiosi, esercitano un influsso sui cambiamenti socio-economici. Io credo, infatti, che le radici del sottosviluppo si annidino nelle strutture mentali delle persone e dei gruppi sociali e che la cultura siciliana abbia un background, in cui si possono includere forme di familismo o un sistema di strutture di parentele, di clan, di fazioni, unitamente a tradizioni di rassegnazione e di emotività, che sono più radicate nelle classi popolari. Radicata nell’inconscio collettivo c’è anche l’idea dello Stato come nemico, come qualcuno da fregare perché ci ha sempre fregato. Da qui l’ambivalenza della mentalità siciliana, tra espressioni anarcoidi e libertarie da una parte, e tendenza alla rassegnazione, al disinteresse ed anche a adattarsi ad una struttura autoritaria dall’altra.
Anche per quanto riguarda la concezione della famiglia, a parte le trasformazioni in senso democratico nelle nuove generazioni, domina, in generale, ancora il modello parsonsiano, basato su ruoli complementari: la madre, regina della casa, addetta al ruolo espressivo-emotivo; il padre, produttore del reddito, addetto alle relazioni esterne. Quando si parla del ruolo della donna in Sicilia, bisogna distinguere tra la donna come persona, che ha uno scarso potere, una condizione di marginalità sociale e discriminata nel lavoro e tra la donna in quanto madre e cioè come figura centrale dei processi di socializzazione che avvengono nella famiglia e che presiedono allo sviluppo affettivo-emotivo e sociale dell’infanzia e dell’adolescenza.
La famiglia rappresenta un’unità simbolica ed economica, che è centrale nel sistema sociale siciliano. Essa, non solo funge da agente psichico della società, trasmettendo valori e tradizioni dominanti nella società, una sorta di carattere sociale, ma assolve il ruolo di cassa integrazione e di ammortamento delle tante contraddizioni del sistema socio-economico siciliano. Essa è, inoltre, inserita nel network di relazioni sociali, di scambi, di favori, basati sulla conoscenza degli amici degli amici, sul “comparato” molto diffuso, ricorrendo all’assistenzialismo, al sistema diffuso delle raccomandazioni, al prezzo del clientelismo, servilismo verso il potente di turno. Tutto ciò crea un sistema d’interdipendenza tra postulanti e politici così diffuso, che anche coloro che lottano per cambiare la società sono costretti a adeguarsi al sistema se vogliono che il proprio figlio non sia escluso da ogni possibilità di lavoro e di vita.
Anche la religiosità, in Sicilia, è per lo più di tipo prerazionale, antropomorfica, mitologica e ritualistica, basata più sull’esteriorità che sull’adesione interiore e consapevole ad una scelta di vita e proprio per questo non può diventare un fattore di cambiamento sociale. In sostanza l’ateismo pratico feriale si accompagna con il rituale della messa festiva.
Il senso di morte che permea la vita sociale, il senso di rassegnazione, la pratica clientelare diffusa, sono tutti fattori frenanti il cambiamento, che bloccano le energie più creative, generano fatalismo e creano il senso di una realtà immodificabile.
Come fare per trasformare questo circuito vizioso in un circuito virtuoso? Si tratta ovviamente di un processo complesso, sul quale mi sforzerò di essere propositivo in altra occasione. Oggi posso avere lo spazio soltanto per dire che bisogna, a mio parere, fare di necessità virtù e partire da quello spazio di solidarietà familiare come nucleo iniziale per puntare su forme di aggregazione e di organizzazione sociale più elaborate su larga scala e avviare un lavoro per un processo di coscientizzazione, teso a mutare le strutture mentali ed emotive. Nessun mutamento può avvenire se non è simultaneo nel settore economico, politico e culturale. Nessun uomo può diventare un cittadino libero se non è libero nel pensiero, emotivamente e nelle sue relazioni economico-sociali; e se non diventa un partecipante attivo e responsabile alle decisioni che riguardano la propria vita individuale e sociale.