lunedì 14 gennaio 2013

La marachella di Monti



La notizia non sorprende. Una conferma del fatto, ammesso che ce ne fosse stato bisogno, che nel
gioco scorretto non si accenna a cambiare registro.
Una nota di agenzia, infatti, informa che il governatore della Banca Europea, Mario Draghi, ha
bacchettato il governo italiano per aver concesso un  prestito di 3,9 miliardi di euro alla Banca
Monte  dei  Paschi. La ragione della reprimenda risiede nel fatto che l’operazione, secondo le
norme comunitarie, sarebbe dovuta passare per le autorità monetarie europee, le sole a  poter
decidere l’importante erogazione.
Ovviamente, ormai che il guaio è avvenuto Monti si becca la strigliata e il Monte Paschi si tiene i
miliardi. Gioco vecchio!
E così, si direbbe che  il nostro presidente del Consiglio,  fedele al disastroso  programma salva
banche, si sia distratto e abbia dimenticato di chiedere  l’indispensabile permesso. Non bisogna
essere troppo severi, una dimenticanza è quanto di più umano possa accadere ad una persona più
che impegnata a salvare  il sistema dilapidatore dei risparmi della gente: una fatica identica a
quella di Eracle, quando gli fu ordinato di ripulire le stalle di Augia dallo sterco dei buoi. Solo che
quella  fatica  Eracle la portò a termine con successo, mentre questa somiglia di più  a quella di
Sisifo,  condannato a  portare sulla sommità della montagna un enorme masso che rotolando
all’indietro in continuazione  lo costringeva a ricominciare la salita. Infatti, nel nostro caso i buoi
continuano a defecare e le stalle rimangono sempre zeppe.
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   
Ma stanno veramente così le cose?  Riesce difficile immaginare una simile dimenticanza.
Tremilanovecento milioni di euro dei  contribuenti italiani, non sono quisquilie - o pinzellacchere
per dirla con Totò - tali da far prendere sottogamba i doverosi adempimenti legati all’operazione.
Qualcosa non convince. E se, invece, i due draghi della finanza - Monti e il Draghi anche di nome -
si fossero accordati alla chetichella e l’uno avesse detto all’altro: tu fallo senza dire niente; io, poi,
mi limiterò ad una tiratina di  orecchie e tutto finirà lì. Soluzione, discreta sì, ma in verità molto
poco lodevole se ti chiami Monti, sprizzi serietà ed aplomb da tutti i pori e dici di starci per salvare
il mondo.
A sentire Marco  Travaglio, “con quella somma si poteva fare a meno dell’IMU sulla casa”. Una
conferma supplementare che stiamo assistendo impotenti, magari liberi di strillare quanto ci pare,
alla salvezza delle banche, all’affossamento  del Paese e all’impoverimento dei cittadini.
A proposito di banche, non si capisce come mai nessuna autorità ha finora messo il naso nei bilanci
degli istituti di credito compromessi con le folli operazioni speculative che hanno determinato
l’incalcolabile disastro. Giusto per passare al pettine fine tutte le loro scritture contabili, perché si
possa escludere che il paese stia mettendo le proprie risorse nel pozzo senza fondo di venditori di
fumo. Non fosse che per proteggere i cittadini che delle avventure speculative stanno pagando il
conto. L’Intendenza di Finanza, per esempio,  potrebbe occuparsene,  o  la magistratura, peraltro
particolarmente attenta come sembra a quel che di poco chiaro avviene in Italia. Non è necessarioche, uno dopo l’altro, i magistrati si candidino nei vari schieramenti politici. Hanno  tutti gli
strumenti  per fare  molto meglio, codice alla mano, stando al loro posto.  Magari sospendendo
momentaneamente la conta degli orgasmi del Cavaliere, o di tutto ciò che produce fumo e solo
fumo.  Ci sono priorità che non si possono  mettere sotto il tappeto, e che non  sono Ruby o
D’Addario.
A stretto rigore di logica, non appare di certo tanto legittimo trasferire d’imperio una somma così
colossale di risorse, dai bisogni del Paese  ad un istituto di credito privato (e sottolineo privato).
Una somma che regge il confronto con quella dei grandi casi di corruzione politica dalla nascita
della Repubblica ai giorni nostri. Scandalo petroli (regnante Moro) e Banca del Lavoro di Atlanta
messi insieme. Giusto per citarne qualcuno.
Se tanto mi da tanto, nel caso Monti-Paschi stiamo parlando di danaro pubblico che viene prestato
alla cieca, con garanzie inesistenti. La banca in questione, infatti, si trova in condizioni di bilancio
tali che a qualsiasi altro imprenditore imporrebbero di portare, come si suol dire, i libri contabili in
tribunale. Il giusto indirizzo dove poter accertare eventuali violazioni del codice nella conduzione
aziendale.  Assolutamente tutt’altra cosa che  favorire un indebitamento insensato e contro la
legge.  Per chi dà e per chi riceve. E chissà, una volta  rimestata la faccenda, cos’altro si
snocciolerebbe sul conto di qualche altra grande banca … e via di seguito. Vengono i brividi, al solo
sospetto che sarebbero in pochi a salvarsi dal prevedibile Tsunami!. Abbiamo il diritto di
apprendere con chiarezza a chi si stanno  affidando i nostri soldi; la ragione vera e con quali
concrete garanzie. Il popolo deve ricevere spiegazioni serie e comprensibili. Sfrondate di furbizie e
secondi fini.
Per il momento si fanno apparire come sufficienti i pseudo controlli della Banca d’Italia. Tanto la
gente non sa che il nome pomposo di questo istituto, anch’esso privato e appartenente alle stesse
banche che controlla, non ha niente a che vedere con lo Stato italiano. Il controllore, insomma,
che controlla se stesso. Ovviamente nell’interesse strettamente privato,  giammai in quello dei
cittadini utenti. Il tutto  all’ombra di  inqualificabili e numerose  coperture istituzionali.  Di tutta
evidenza, per chi ancora nutrisse dei dubbi, l’interesse a scoperchiare  il vaso di Pandora del
malaffare finanziario equivale allo zero assoluto.
E intanto i vari candidati alle prossima competizione politica gareggiano a rifarsi il look. E le
spigolature fanno capolino. Pare che Casini, essendosi già bruciate le mani,  abbia detto che per
Monti metterebbe la lingua sul fuoco. Cos’altro gli rimane da grigliare alla prossima toppata?
Il candidato Monti abbandonata la sua austerità si concede qualche battuta: ha citato Brunetta e
la sua “autorevolezza di professore … di una certa statura … accademica”. Gratta gratta, la natura
di chi si sforza di parlare con misura viene sempre fuori! Il deplorevole sarcasmo, più che far
ridere, ha  sottolineato il livello  scadente del suo argomentare.  Oggi Brunetta, domani la
dabbenaggine del volgo ignaro.
Qualcuno si è augurato  che Matteo  Renzi  vestisse i panni di un  Epaminonda della situazione.  Il
grande eroe tebano  che a Mantinea riprese in extremis, anche se ne era stato esautorato,  il
comando dell’esercito affidato ad incapaci, capovolgendo, da grande stratega quale era, le sorti
della battaglia che volgeva pericolosamente in favore degli Spartani.
10 gennaio 2013 Gianfranco Becchina

giovedì 27 dicembre 2012

Il ragioniere Monti getta la maschera e sale in politica


Il ragioniere Monti getta la maschera e sale in politica
Piero Di Giorgi
Il ragioniere Monti ha gettato la maschera di tecnico neutrale, rivelandosi con il suo volto reale di rappresentante dell'élite dominante. La sua agenda non promette niente di nuovo se non continuare sulla strada intrapresa di rigore a senso unico, in una visione parziale e non sistemica, almeno di sistema-Europa. Infatti, il problema della crisi non è risolubile all'interno dei singoli Paesi ma è un problema di crisi strutturale che postula una riconsiderazione del modello di produzione, del problema delle disuguaglianze e quindi della giustizia, almeno a livello europeo. E' quello che fece Franklin Roosvelt negli anni '30 per superare la grande depressione economica del '29, cioè di aumentare il bilancio dell'Europa per un piano comune di sviluppo alternativo, centrato sulla ricerca, sulla scuola, sulle infrastrutture, sulla tutela dell'ambiente, sulle fonti energetiche rinnovabili, una rottura con l'egoismo e l'avidità dei privilegiati e un programma di rafforzamento dello Stato sociale e di grandi opere pubbliche, fondamentalmente una politica keynesiana.
Monti, di contra, porta avanti quel progetto politico, economico e sociale  intrapreso, negli anni '80 dalla destra americana, che ha la sua matrice nel pensiero monetarista  della scuola di Chicago (c. d.Chicago boys), il cui capostipite è stato l'economista Milton Friedman, divenuta, a livello internazionale, la bibbia del Fondo Monetario Internazionale, i cui think-tanks (pensatoi del pensiero unico) sono stati rappresentati dalla c. d. Trilaterale (USA, Europa, Giappone e che inaugurò l'era Reagan-Thatcher.
Tale politica, come ha mostrato già il caso dell'Argentina e delle Grecia, rischia di strangolare l'economia e ha prodotto licenziamenti, alta disoccupazione, diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori. Già nell'estate del 2011, Paul Grugman e Joseph Stiglitz, premi nobel per l'economia, avevano lanciato l'allarme, avvertendo i governi occidentali che, sposando la linea del rigore, sarebbero caduti nella recessione e che tagliare la spesa pubblica in un'economia già debole, significava una catastrofe.
E' quello che è avvenuto con il governo Monti. L'Italia è in recessione con il PIL sotto di almeno tre punti. Egli, invece, sostiene che la catastrofe è alle nostre spalle, che egli ci ha tratto fuori dal baratro. Non lasciamoci illudere. Ci ha ridato soltanto una certa credibilità internazionale e non ci voleva molto visto che eravamo rappresentati da un satrapo barzellettiere e dalla sua corte di servili tirapiedi, che hanno trasformato l'Italia in una nuova Sodoma e Gomorra.
Per quanto riguarda la sua ricetta economica, tra la riduzione dello Spread e la riduzione del PIL, il saldo è pari. Il debito pubblico è aumentato e siamo lungi dall'essere approdati dal pelago alla riva. La sua politica di rigore senza equità e senza giustizia, di mancata ridistribuzione della ricchezza e di conseguente non riduzione delle disuguaglianze, che è una delle cause della crisi, di attacco inaudito al reddito delle classi lavoratrici e del ceto medio-basso con un'insopportabile tassazione a senso unico, ha prodotto soltanto recessione. Lo sanno anche i bambini che, quando la crescita è ferma per mancanza della domanda, lo Stato deve svolgere un ruolo di supplenza, incrementando la spesa pubblica ma qualificandola, eliminando sprechi, enti inutili, sperpero di denaro e corruzione. La crisi non è finita e continuare la politica montiana sarebbe un suicidio.
D'altra parte, la “santa alleanza” che si è formata intorno a Monti non ha nullo di nuovo. A parte il richiamo ottocentesco, è fatta di ecclesiastici, imprenditori, politici stracotti, tutti che si definiscono moderati, cioè conservatori, che non vogliono mettere in discussione gli assetti sociali e i privilegi costituiti.
Insomma, alla fine, gli incantatori si sono raddoppiati: al sempiterno Berlusconi si è aggiunto il ragioniere Monti. Non siate serpenti, non fatevi sedurre dal nuovo pifferaio.

giovedì 1 novembre 2012

Debito pubblic


Non sottovalutare il problema. Il debito pubblico non è una questione di ordinaria politica.
È una guerra del potere finanziario contro le comunità nazionali per imporci il proprio dominio e impossessarsi della nostra ricchezza.
Se vince, perderemo democrazia, sicurezza sociale, beni comuni e ogni altra conquista sociale.
Per piegarci al suo volere, il potere finanziario usa giornali, televisioni ed economisti, per darci un’unica versione dei fatti. Il suo intento è convincerci che il nostro unico dovere è pagare, non importa se la disoccupazione cresce, se i servizi si riducono, se la previdenza sociale scompare.
Non possiamo sperare che sia la classe politica ad arrestare questo lento declino. Per convinzione o per interesse, i politici sono alleati dell’oligarchia finanziaria. Solo una grande opposizione popolare potràsalvarci.
Ma per costruirla ci vuole il contributo di tutti.
 Varie le ipotesi possibili:

L’italia è una storia di tipo D. Dal dopoguerra tutto è cresciuto: il prodotto interno lordo, il gettito fiscale, la spesa pubblica.
Quest’ultima, però, è cresciuta più del primo e ha generato debito.
Ha ragione chi afferma che ci siamo indebitati perché abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità?
Non proprio: ci sono gli interessi che stravolgono tutto.

A giugno 2012 il debito pubblico italiano sfiora i 2.000 miliardi di €
ed è quasi tutto a carico dello stato.

Il debito è la somma dei deficit, ossia delle disparità (disavanzi) che si creano nei singoli
anni fra entrate e uscite. Varie le ipotesi possibili:

USCITE
 Defi cit
per diminuizione di entrate
Defi cit per aumento di uscite
Defi cit
per aumento di uscite superiore a quello delle entrate.

1° livello: SALDO PRIMARIO
È un saldo parziale che mette a confronto le entrate totali con le spese
per servizi, investimenti e previdenza sociale.
A rimarcare la loro centralità, tali spese sono anche dette primarie.
Il risultato può evidenziare un risparmio
(avanzo primario), un eccesso di spese (disavanzo primario), una parità (pareggio primario).
2° livello: SALDO DI BILANCIO
È il saldo finale che mette a confronto le entrate totali con le uscite totali, ivi comprese eventuali spese per interessi. Il risultato può essere un avanzo di bilancio, un deficit di bilancio o un pareggio di bilancio.

Nel 2011 abbiamo avuto un avanzo primario di 16 miliardi.
Ma gli interessi ci hanno provocato un deficit di 62 miliardi.Se non si hanno abbastanza soldi per pagare gli
interessi, si entra nella spirale perversa degli interessi che alimentano il debito.

Il debito, come e perché
Genesi e sviluppo del debito italiano
Dal 1980 al 1991 la spesa primaria fu superiore alle entrate per 140 miliardi di €. Ma il vero problema furono gli interessi cheoscillavano fra il 12 e il 20%. Bisognò attendere il 1996 per vederli scendere sotto al 9%.
In parte l’Italia pagava per le scelte di Reagan che aveva bisogno di soldi per finanziare lo scudo spaziale. Non volendo alzare le tasse, si finanziava richiamando capitali dal resto del mondo offrendo alti tassi di interesse. Gli altri paesi assetati di prestiti non avevano altra scelta che offrire di più.
Con l’eccezione del 2009-2010, tutti i governi successivi al 1992 hanno mantenuto
la spesa primaria al di sotto delle entrate. Ma il debito ha continuato a crescere per effetto degli interessi.
Gli anni bui del debito pubblico italiano vanno dal 1980 al 1996,un quindicennio durante il quale il debito cresce 10 volte:
da 114 a 1.213 miliardi di €. Ma non fu solo per troppe spese.

Il debito, come e perché
Trent’anni di interessi a debito
Dal 1980 al 2011 le spese per servizi sono state inferiori al gettito fiscale per 484 miliardi. Ma 2.141 miliardi di interessi ci hanno fatto indebitare all’inverosimile.

Riepilogando, i conti non tornano
Riepilogo 1980-2011
Debiti accumulati per servizi e investimenti
Debito di partenza al 1980 114 + Disavanzi primari 149 = Totale indebitamento al 2011 per servizi e investimenti 263
Risparmi realizzati
Avanzi primari 633 –Disavanzi primari 149 = Risparmio netto 484 –Debito di partenza 114 =
Avanzo del trentennio 370
Debito finale
Interessi pagati nel trentennio 2.141 – Avanzo del trentennio 370 = Differenza a debito per interessi 1.771 +
Altre voci di debito non precisate 126
Debito totale al 2011 1.897
Nel trentennio 1980-2011, per 14 anni abbiamo avuto spese per servizi superiori alle entrate.
Ma negli altri 18 siamo stati al di sotto producendo un risparmio netto di 484 miliardi.
Ciò nonostante ci ritroviamo con un debito di 2.000 miliardi. Qualcosa non torna.

Dicono che siamo un popolo di spreconi. In realtà siamo un popolo di risparmiatori spennati.

Più che il valore assoluto del debito, interessa il rapporto col Prodotto interno lordo (Pil) perché indica quant’è grande in rapporto alle forze del paese.
La Germania ha un grande debito in termini assoluti. Ma in rapporto alle sue forze è leggero come sughero.
La Grecia ha un piccolo debito, ma per le sue forze è pesante come un macigno.
Debiti d’Europa
(anno 2011 in miliardi di €)
Germania: debito 2.088;  PIL 2.570  Rapporto tra debito e PIL 81,2
Italia: debito 1.897; PIL 1.580                 "            "                  120
Francia: debito 1.717; PIL 2.000              "            "                  85,2
Regno Unito: debito 1.650; PIL 1.924;    "             "                  85,7
Spagna: debito 734; PIL 1.073;               "              "                 68,5
Grecia: debito 355; PIL 215;                    "            "                 165
Portogallo: debito 184; PIL 171                "            "                107
Irlanda 169 156 108
[Fonte: Eurostat, Newsrelease euroindicators, 23 aprile 2012]

Trattandosi di un rapporto, la grandezza varia in base all’andamento delle due variabili.
Rimane stabile se Pil e debito crescono o diminuiscono della stessa proporzione.
Cambia drasticamente se le due misure si muovono in direzione opposta.
Cambia moderatamente se si muovono nella stessa direzione, ma in proporzioni diverse.

Il volto dei creditori
Solo il 15% del debito pubblico italiano è per somme dovute a fornitori o altri creditori diretti.
Il resto è per prestiti ottenuti dal mercato finanziario in cambio di titoli di stato.
Fondi e Assicurazioni
Banche italiane
Francia
Germania
Altri soggetti esteri
Struttura del debito pubblico

Alla guerra del mercato
Il debito pubblico diventa un problema quando è trasformato in oggetto di speculazione da parte dei mercati, che possono agire indisturbati per decisione degli stati di abdicare alla propria sovranità.
Speculatori più potenti degli stati Ricchezza amministrata (miliardi $)
Barclays 3.700
BlackRock 3.700
Lazard 2.908
JP Morgan 2.265
Deutsche Bank 2.164
Credit Suisse 1.067
Il problema degli stati è che debbono ricorrere periodicamente ai mercati per rifinanziare il proprio debito. In altre parole devono chiedere nuovi prestiti per restituire quelli in scadenza. I mercati usano la speculazione al ribasso per imporre ogni volta tassi di interesse più alti.
Ma il danno non è solo per le casse pubbliche. È anche per le banche che si vedono ridurre il valore dei titoli di stato in loro possesso.
Nell’insieme può scatenarsi una sfiducia verso l’intero sistema economico tale da provocare il tracollo della moneta.
Il mercato considera i titoli del debito pubblico come valori vendibili e prima che arrivino a scadenza possono passare varie volte di mano.

La speculazione interviene in questo circuito (mercato secondario) per manipolare i prezzi e guadagnare
in più tempi.
1. Guadagno immediato a spesedegli altri investitori
2.Guadagno successivo a spese dello stato.
Generalmente, sui titoli del debito pubblico
si applica la speculazione al ribasso che consiste
nel fare crollare il prezzo. L’operazione avviene in due tempi:
1) Lo speculatore prende a prestito dei titoli per venderli al prezzo del momento;
2) quando i prezzi sono scesi ricompra i titoli (a prezzo ribassato) per restituirli a chi glieli ha prestati.
Il sistema interpreta la caduta dei prezzicome una perdita di fiducia nei confronti dello stato in questione e ne tiene conto quando questi si presenta sul mercato per chiedere nuovi prestiti.
Allora gli viene ricordato che i prestiti a soggetti poco affidabili sono considerati a rischio e possono essere ottenuti solo in cambio di interessi più alti.

Lo spread spiegato dal contadino
Spread significa differenziale e indica la differenza di rendimento fra titoli.
Poiché il rendimento è il guadagno in rapporto all’investimento, tanto più bassa la qualità, tanto più alto il rendimento.
Parola di contadino.
Il racconto
Padre e figlio vanno alla fiera in cerca di una mucca. Ne trovano due della stessa capacità produttiva. Ma una è sana, l’altra azzoppata. Il figlio si innamora della sana, ma il padre prende quella azzoppata.
- Perché ti diverti a prendere gli scarti? – chiede il figlio adirato.
- Perché bado al rendimento – risponde il padre.
- Ma papà il rendimento è lo stesso: 30 litri l’una, 30 litri l’altra.
- Sbagliato! Non devi valutare solo la produzione, ma anche l’investimento. Quella sana costava 1.000, quella azzoppata 500, con metà della somma ottieni la stessa quantità di latte,ossia il doppio di rendimento.
- Se oltre che zoppa, fosse stata pure cieca, avremmo fatto un affare addirittura migliore – commenta il figlio sgomento.
- Senz’altro – conferma il padre – l’avremmo pagata ancora meno.
- In conclusione, – ribatte il figlio – rendimento alto è sinonimo di investimento scadente, rendimento basso è sinonimodi investimento pregiato.
- Bravo! – conclude il padre raggiante – Vedo che cominci a capire qualcosa di economia.

In Europa i titoli di stato più apprezzati sono i bund tedeschi, pertanto sono presi come riferimento per valutare il grado di fiducia verso quelli degli altri stati.
L’elemento assunto come indicatore è lo spread, ossia il differenziale dei rendimenti.
Esempio
Se il rendimento del BTP italiano è del 5% e quello
del Bund tedesco è del 2%, lo spread è di 300 punti
(5-2=3%).
Poiché il rendimento cresce al ridursi del valore del titolo, e ciò si verifica quando il titolo è poco richiesto,
lo spread alto significa bassa domanda e quindi alta sfiducia.
Conseguenze
1. Gli speculatori possono approfittare del clima di sfiducia per lanciare un attacco speculativo che aggrava ulteriormente la sfiducia.
2. La sfiducia può obbligare lo stato a pagare interessi più alti su di titoli di nuova emissione.
3. Interessi più alti possono rafforzare la convinzione che lo stato fallirà, il panico può scatenare la fuga
di capitali generando penuria di liquidità a tutti i livelli.
4. Le banche hanno difficoltà di accesso al credito perché si trovano a dare in garanzia titoli che valgono
meno.

Obiettivo spennarci
Conseguenze
1. Si aggravano le disparità
Nel 1985, in Italia, il divario fra il 10% più ricco e il 10% più povero era 8 a 1. Nel 2008 è salito 10 a 1.
L’11% delle famiglie italiane vive in povertà e un altro 7,6% è a rischio di diventarlo. (Istat luglio 2012)
2. Peggiorano le nostre condizioni di vita Più soldi paghiamo per interessi, meno ne abbiamo per servizi e previdenza sociale.
Nel 2011 abbiamo versato nelle tasche dei ricchi 78
miliardi. Nel 2012 la cifra è attesa a 90 miliardi.
Soldi sottratti a scuola, sanità, creazione di posti di lavoro, in perfetto stile neoliberista.
Fra il 2008 e il 2012, fra maggiori tasse e minori spese, abbiamo subito un salasso di 330 miliardi di €.
[Il sole 24 ore, 16 luglio 2012]
Il debito è diventato una guerra dei mercati contro le comunità nazionali per fare aumentare i tassi di interesse e intascare più soldi.
All’Italia ogni aumento dell’1% procura una maggior spesa annua per interessi
di 16 miliardi. A vantaggio dell’oligarchia finanziaria.

Da quando (gennaio 2002) abbiamo adottato l’euro, abbiamo perso sovranità monetaria e assieme ad essa una serie di strumenti che ci permettevano di ridurre la dipendenza dai mercati.
Cosa non possiamo più fare:
1. ordinare alla Banca d’Italia di finanziare il debito con la stampa di nuova moneta
2. ordinare alla Banca d’Italia di intervenire massicciamente in caso di attacchi speculativi.
Né c’è da sperare che queste funzioni siano
svolte dalla Banca Centrale Europea perché la sua missione non è salvare gli stati, ma combattere
l’inflazione.
In effetti l’euro nasce come degli amici che decidono di fare vita in comune, ma non si fidano l’uno dell’altro. E per paura che tutti possano andare in malora per colpa di qualcuno che esagera col riscaldamento, che lascia le luci accese, che va troppo spesso al ristorante, si danno regole strettissime e nominano un amministratore con un mandato severo.
La paura dell’Europa, quando fonda l’euro, sono i debiti sovrani. Soprattutto vuole evitare che vengano finanziati con moneta aggiuntiva perché può portare a inflazione e svalutazione, con danno per tutti.

L’euro nasce con la convinzione che la priorità è la stabilità monetaria e che la principale minaccia a questo progetto è rappresentato dai debiti pubblici, specie se risanati con l’emissione di nuova moneta.
Pertanto l’Europa fa due scelte:
1. Toglie agli stati il rubinetto del denaro (sovranità monetaria) per consegnarlo al sistema bancario privato sotto la guida della Banca Centrale Europea.
2. Avverte gli stati che se fanno debito dovranno arrangiarsi da soli.
Conseguenze:
1. Stati totalmente dipendenti dal sistema creditizio privato.
2. Stati senza possibilità di regolare l’economia e di espandere la spesa
pubblica in base alle necessità.
3. Banche più forti perché trasformate nel canale privilegiato di diffusione
della moneta tramite il credito.

Banca Centrale Europea
Direzione: Governatori delle Banche Centrali Nazionali
Obiettivo: Mantenere la stabilità dei prezzi (art. 127 Trattato UE)
Funzioni: Emettere banconote, concedere crediti agli istituti bancari, acquistare e vendere titoli sul mercato
secondario
(art. 18 Statuto BCE)
Divieti: Concedere prestiti a stati e
altre strutture pubbliche
(art. 21 Statuto BCE)

Tutto questo ci è stato regalato nel 1992 col Trattato di Maastricht



















Unificare la moneta è come spalancare le gabbie dello zoo:
le bestie più forti entrano nelle gabbie di quelle più deboli e le depredano.

In Europa i paesi economicamente più forti sono quelli del Nord, non solo per dimensione produttiva, ma
soprattutto per vantaggio competitivo.
In particolare la Germania che dal 1999 riduce i costi di produzione tramite la riduzione salariale, la moderazione fiscale, la flessibilità del lavoro. L’unificazionemonetaria ha facilitato leesportazioni tedesche che
hanno invaso tutta Europa danneggiando l’apparato produttivo dei paesi più deboli: Portogallo, Grecia, Spagna, in qualche misura l’Italia.
Il risultato è un’Europa distorta con un Nord forte che vende più di quanto comprae un Sud debole che compra più di quanto vende. Una situazione che si riflette anche sui bilanci pubblici che registrano un indebitamento crescente a causa di introiti sempre più bassi.
Ma nessuno parla. Tacciono gli industriali tedeschi ansiosi di espandersi. Tacciono le banche europee ansiose di prestare soldi a chi cerca di tappare le falle indebitandosi. Tacciono i politici ansiosi di far credere
che tutto va bene.
Ma i palazzi storti prima o poi vengono giù.
Il debito pubblico non è solo un problema del Sud, ma di tutta Europa.
A livello di eurozona la cifra complessiva è di oltre 8.000 miliardi. Anche a causa delle banche.



Il debito di ogni paese ha la sua storia e quella dei paesi del Nord è fortemente intrecciata con i
dissesti bancari.
Dal 2007 il sistema bancario occidentale è nella tormenta. Nella bramosia di guadagnare sempre di più le banche hanno espanso a dismisura le proprie attività, non sempre nella giusta direzione.
Molti mutui non sono rientrati, un sacco di scommesse sono risultate sbagliate, fiumi di denaro sono andati
perduti. Ma non si è trattato di soldi propri, bensì presi in prestito e alle banche si è posto il problema di come restituirli.
Per evitare la bancarotta hanno chiesto soccorso ai governi e l’hanno ottenuto.
Ma per salvare le banche, i governi hanno indebitato se stessi.

La retorica vuole un’Europa solidale. La realtà mostra un’Europa di tutti contro tutti.
Uniche priorità condivise: salvare le banche e lasciare ai mercati totale libertà di manovra.
17 paesi sono legati fra loro a doppio filo perché utilizzano la stessa moneta.
Se uno solo fallisce, la moneta comune è a rischio. Ma i paesi più forti (Germania,Olanda, Finlandia, Austria) non vogliono saperne di condividere risorse e politiche con quelli più deboli: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna. Che ognuno si arrangi da solo tirando la cinghia per ripagare
Unica concessione: la costituzione di fondi comuni (EFSF come fondo transitori fino al luglio 2013 e ESM come fondo permanente dal luglio 2012) per l’erogazione di prestiti a paesi a corto di soldi per ripagare
i debiti in scadenza.
Ma i prestiti sono subordinati all’adozione di misure di risanamento dei bilanci pubblici che comprendono aumenti di tasse e tagli drastici alla spesa pubblica.
I paesi assistiti fino al luglio 2012 sono stati Irlanda, Portogallo e Grecia, con esiti disastrosi.
Compiti: Erogare prestiti a paesi membri con situazione finanziaria che compromette la stabilità dell’euro.
Totale prestiti erogabili: 500 miliardi.
Dotazione prevista: 700 miliardi da versarsi sulla base dell’effettivo bisogno.
Quota a carico dell’Italia: 125 miliardi pari al
18% del Fondo.
ESM*
(Fondo di emergenza europeo)
* European Stability Mechanism Meccanismo europeo di stabilità.

Altri modi di uscire dal debito sono possibili.
Ma dipende dal tipo di Europa che vogliamo costruire: se sovrana o asservita al potere finanziario,
se solidale o degli egoismi nazionali, se al servizio della persona nel rispetto dell’ambiente, o del profitto.
Le due Europe possibili:
EUROPA SOVRANA E CONDIVISA. USCIRNE INSIEME
(politiche e risorse
condivise).SOLIDALI
- Trasformazione della BCE in prestatore diretto degli stati.
- Emissione di titoli di debito pubblico europei (Eurobond).
- Interventi per il superamento delle disparità regionali.
- Tobin Tax per limitare le transazioni finanziare.
- Norme per impedire la speculazione sui titoli distato.
- Lotta ai paradisi fiscali.
- Regolamentazione della finanza.
- Nazionalizzare le banche dopo averle depurate dei titoli tossici e dei debiti verso il sistema bancario ombra.
- Tornare a gestire le banche su base locale,come strutture di credito al servizio dell'economia reale.
EUROPA
ASSERVITA
E DISGREGATA
USCIRNE DA SOLI
(politiche di austerità adottate singolarmente).
- Costituzione di fondi d'emergenza per concessione di prestiti.
- Concessione di prestiti condizionati all'adozione di politiche d'austerità.
Tutt'al più difendersi tramite
- Interventi della BCE sul mercato secondario.
- Interventi del fondo di emergenza.
- Colmare gli ammanchi delle banche con soldi di tutti permettendo agli azionisti di continuare a fare profitti.

Tramite la speculazione, l’oligarchia finanziaria riesce a guadagnare sempre di più, ma poi fa come il coccodrillo: piange dopo aver ingoiato la preda.
Non per il dispiacere di avere annientato una vita, ma per paura di non avere più niente da mangiare.
Nella loro avidità senza fine, banche, fondi pensione, assicurazioni, fondi d’investimento, fondi speculativi,
usano tutti i mezzi di cui sono capaci per spingere i governi a porsi come obiettivo primario il pagamento degli interessi, se possibile a tassi sempre più alti. E i governi si adeguano come servitori zelanti: aumentano le tasse e tagliano le spese affinché la ricchezza migri ininterrotta dalle comunità all’oligarchia finanziaria.
Ma ottenuto ciò che volevano, i signori della finanza si mostrano comunque insoddisfatti. Temono che togliendo ricchezza alla gente e riducendo le spese pubbliche, la domanda complessiva possa ridursi a tal punto da inceppare l’intero sistema. In effetti se gli acquisti rallentano, le aziende falliscono e la disoccupazione cresce in una spirale crescente. Così l’austerità si trasforma in recessione che mette tutti nei guai, perché un sistema in crisi non garantisc e ricchezza a nessuno.

Crescita è la ricetta prescritta dai dottori in economia di mercato per salvare capra e cavolo.
Ma la crescita è ancora possibile?
Rendite sempre più alte, ma anche famiglie e stato capaci di alti consumi, questo è ciò che i mercati vorrebbero.
Ma, come fare per ottenere la classica botte piena e moglie ubriaca?
Per i dottori in economia una soluzione esiste: si chiama crescita e tutti la invocano.Se aumenta la produzione, aumenta il gettito fiscale senza necessità di nuove tasse. Alle famiglie rimane abbastanza ricchezza da spendere, allo stato arriva abbastanza denaro per pagare gli interessi e garantire i servizi. I consumi tengono, l’occupazione anche, sta meglio lo stato, stanno meglio le famiglie. Il paese si rimette a correre e tutti vivranno felici e contenti.
Ma esistono le condizioni per crescere?
Vari segnali dicono di no. La globalizzazione prima di tutto, perché porta gli effetti fuori dal paese. Non a caso si punta sull’ulteriore riduzione del costo del lavoro come carta vincente per cavalcare la concorrenza globale. Ma l’ostacolo principale è di carattere ambientale. Gli economisti, brava gente, fantasticano di produzione e ricchezza, consumi e investimenti, come se gli oggetti fossero fatti di niente.
Ma benché ci vantiamo di avere oltrepassato
il confine dell’immaterialità, ogni europeo consuma mediamente 16 tonnellate di materiali all’anno che diventano 51 se consideriamo lo zaino ecologico, ossia i detriti e i rifiuti lasciati lungo le filiere produttive.
E il pianeta non ce la fa più.
Un’altra via di uscita si impone.

Scegliere fra creditori e cittadini
Continuano a dirci che per uscire dal debito non abbiamo altra scelta se non accettare manovre lacrime e sangue che ci impoveriscono e demoliscono i nostri diritti. Ma lungo questa strada, passo dopo passo, arriveremo alla morte per strangolamento.
L’alternativa è avere il coraggio di annunciare al mondo che un paese in difficoltà non fa pagare solo i cittadini, ma anche i creditori. Ecco i quattro passi per un’uscita dalla parte dei cittadini.
- ristrutturazione e ripudio del debito illegittimo;






-lotta alla speculazione;

- congelamento degli interessi;


lotta all’evasione;
- riquali cazione della spesa.

La prima cosa da fare a protezione della comunità è tamponare la falla degli interessi.
Un obiettivo che si raggiunge prima di tutto con la lotta alla speculazione.
Che
fare?
Provvedimenti fiscali e normativi per scoraggiare, addirittura vietare l’uso della speculazione sui titoli del debito pubblico.

Per un’uscita dalla parte dei cittadini
La politica dominante, sia quella di destra che di sinistra, ha scelto di riconoscere il
mercato come forza suprema e l’unica strategia disposta a considerare è quella competitiva.
Trova normale che l’interesse comune possa diventare oggetto di speculazione e impone allo stato di non usare altri strumenti di difesa se non quelli previsti dal mercato.
Ad esempio in caso di speculazione al ribasso, l’unica manovra che si concede è l’acquisto di titoli del debito pubblico per frenare la caduta del prezzo.
Ma manovre del genere sono possibili solo per stati che possono stampare tutta la moneta di cui c’è
bisogno, ossia che dispongono di sovranità monetaria. Di sicuro non l’Italia che ha abdicato a favore della
Banca Centrale Europea. Non a caso Monti ha dovuto raccomandarsi all’Unione Europea di attivare meccanismi anti-spread.
Purtroppo, in virtù della globalizzazione finanziaria, l’Italia ha difficoltà ad assumere anche provvedimenti di divieto della speculazione.
O per lo meno misure efficaci. Ad esempio può porre limiti alla speculazione in ambito nazionale, ma con scarsa efficacia, perché oltre che alla borsa di Milano, i titoli del debito pubblico italiano si trattano anche a quella di Berlino, Parigi, Londra, dove la speculazione può continuare indisturbata.
Tutto questo per dire che le politiche di controllo del mercato possono essereripristinate con efficacia solo se sono concordate a livello internazionale. Il che non è facile.
Per questo, nell’immediato, bisogna essere disposti a considerare anche iniziative più estreme.
Il dramma degli stati è che hanno trasferito ampie porzioni di sovranità a strutture sovranazionali totalmente al servizio delle forze di mercato.
Servono risposte alternative. Una via può essere il congelamento degli interessi. Ossia la sospensione, a

tempo indeterminato, del pagamento degli interessi in forma totale o parziale.
Se fosse noto che l’Italia non paga gli interessi o che lo fa solo ai tassi applicati dalla Banca Centrale Europea, la speculazione non verrebbe neanche più organizzata perché non avrebbe di che alimentarsi.
Quando tutto rema contro non rimangono che le misure estreme, quelle che paralizzano il mercato per asfissia.
Il congelamento degli interessi è una misura che rientra fra le prerogative degli stati, compresi quelli che aderiscono all’Unione Europea.
Ma chi osa proporlo è subito minacciato di ritorsioni mortali. Del tipo “Non otterrete più un euro in prestito”, oppure “Le vostre banche finiranno sul lastrico”. La minaccia, insomma è di essere estromessi
dal circuito creditizio.
Ma se così deve essere, si può rincarare la dose. Si può decidere di sospendere anche la restituzione del capitale in modo da non avere bisogno di ricorrere nell’immediato a nuovi prestiti. Quanto alle banche si può limitare la loro attività alle sole operazioni utili all’economia reale, in modo da ridurre il loro bisogno di liquidità.
In attesa di provvedimenti sovranazionali come la Tobin tax, la regolamentazione dei paradisi fiscali, il ripristino del controllo dei capitali, la speculazione va combattuta con misure che eliminano alla radice la sua ragion d’essere.

Perché continuare a spogliare la comunità per debiti contratti per arricchire i signori della finanza?
Di nuovo l’alternativa è uscire dagli schemi dominanti, avere il coraggio di dichiararci nell’impossibilità di ripagare l’intero capitale imponendo ai creditori di scendere a patti. Qualcuno lo chiama default
(fallimento) e lo ritiene una vergogna indicibile. Altri lo chiamano ristrutturazione e lo ritengono sano realismo.
Di sicuro è un modo per uscirne vivi come mostrano molti atri paesi che dopo aver ristrutturato hanno ripreso a camminare.
2002 Argentina
1999 Ecuador
1999 Indonesia
2002 Moldavia
1999 Pakistan
2003 Paraguay
1998 Russia
2000 Ucraina
2003 UruguayDopo le misure tampone ci vuole un piano per tornare alla normalità, ossia a un debito sostenibile.
Le vie, ancora un volta sono due:
addossare tutto il carico alla comunità, obbligandolo a dissanguarsi per ripagare il capitale, o addossare parte del carico ai creditori, obbligandoli a rinunciare a parte del denaro.

Il 17 luglio 2012 il Parlamento italiano ha ratificato il trattato europeo che obbliga i paesi dell’eurozona a non avere deficit annuali superiori al 3% e a ridurre in 20 anni la parte di debito che eccede il 60% del Pil.
Per l’Italia significa un esborso straordinario di 50 miliardi all’anno che sommati agli interessi portano ad un’emorragia di oltre 100 miliardi all’anno.
Potremo mai farcela senza demolire la nostra casa comune?

Ci hanno detto che il nostro unico dovere è pagare. Ma noi pensiamo che il popolo ha l’obbligo di restituire solo quella parte che è stato utilizzata per il bene comune e solo se sono stati pagati tassi di interesse accettabili.
Un’indagine che valuti anche il ruolo avuto dagli interessi e che esamini la lista dei creditori per capire se ce ne sono di quelli che da decenni si arricchiscono alle spalle del debito pubblico. In tal caso bisognerà fare un conto di quanto hanno incassato per stabilire se non sia arrivato il momento di dire basta.
A meno che non si voglia affermare che la rendita è un diritto perpetuo, bisognerà pur stabilire quando cessa il diritto del creditore a pretendere un compenso dal debitore.
È urgente avviare una seria indagine popolare sulla formazione del debito per definire quale parte
è doveroso pagare perché utilizzato per il bene comune e quale parte, invece, abbiamo il diritto
di ripudiare perché illegittimo, ossia dovuto a frode, ruberie, corruzione, sprechi, opere inutili e
dannose, arricchimenti e regalie indebite a caste, banche, imprese.

Un’indagine che valuti anche il ruolo avuto dagli interessi e che esamini la lista dei creditori
per capire se ce ne sono di quelli che da decenni
si arricchiscono alle spalle del debito
pubblico. In tal caso bisognerà fare un conto
di quanto hanno incassato per stabilire se non
sia arrivato il momento di dire basta.

Il diritto di non farci strangolare dalla speculazione e di liberarci da un debito troppo pesante non ci esime dall’obbligo di rimettere in ordine i conti pubblici per liberarci più velocemente dal debito e non cadere mai più nella sua trappola.
Vie di risanamento dei conti pubblici
Riforma delle entrate
- Riquali ficazione della spesa
- Lotta all’evasione
- Riforma fi scale in senso fortemente progressivo
- Prelievo sugli alti patrimoni
- Seria tassazione delle rendite
- Lotta alla corruzione
- Lotta agli sprechi
- Forte riduzione delle spese militari
- Potenziamento della spesa sociale e sanitaria
- Investimenti in opere di pubblica utilità
- Sostegno alla conversione ecologica della produzione.

Riforma delle entrate
Sul piano delle entrate, prima di tutto bisogna lottare seriamente contro l’evasione fiscale e l’economia in nero che procura ogni anno un mancato incasso di oltre 120 miliardi di €. Inoltre bisogna ripristinare una seria politica fiscale di tipo progressivo come prescrive la Costituzione. Ossia applicare aliquote crescenti al crescere degli scaglioni di reddito.
Contemporaneamente bisogna reintrodurre una seria patrimoniale che colpisca la ricchezza accumulata oltre misura, sotto forma di beni mobili e immobili, depositi e titoli.
In questa prospettiva possono anche essere assunte iniziativedi debito forzoso a carico dei più ricchi in modo da riportare il debito pubblico in mani italiane.
Per risanare i conti pubblici bisogna agire sia sul piano delle entrate che delle uscite.
Revisione delle uscite
Sul piano delle uscite si impongono due grandi riforme: l’eliminazione degli sprechi e una diversa ripartizione delle spese.
Per quanto riguarda gli sprechi i due grandi imputati sono la corruzione e i privilegi a vantaggio di politici, alti funzionari e dirigenti di imprese pubbliche. Messi assieme ci procurano una perdita di oltre 50 miliardi all’anno.
Per quanto riguarda le spese dobbiamo disfarci di quelle inutili e dannose e potenziare quelle ad alta utilità sociale e ambientale.
Fra quelle da ridurre ci sono le spese per missioni militari, l’acquisto di armi a scopo offensivo, le opere faraoniche tipo TAV e ponte sullo stretto di Messina.
Fra quelle da aumentare, le spese per sanità, istruzione, previdenza, risanamento dei territori, potenziamento delle infrastrutture e delle economie locali, riconversione della produzione in un’ottica di sostenibilità.

Bibliografia minima
- Bruno Amoroso, Euro in bilico, Castelvecchi editore, 2011
- Andrea Baranes, Finanza per indignati, Ponte alle grazie, 2012
- Autori vari, Oltre l’austerità, e-book scaricabile dal sito di Micromega
- François Chesnais, Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza, Derive approdi, 2011
- Paolo Ferrero, Pigs, Derive approdi, 2012
- Francesco Gesualdi, Facciamo da soli, Edizioni Altreconomia, 2012
- Damien Millet, Eric Toussaint, Debitocrazia, Edizioni Alegre, 2011
- Mario Pianta, Nove su dieci, Editori Laterza, 2012.

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5. Se sei un insegnante, proponi il kit come tema e mostra
scolastica.
6. Se sei responsabile di una realtà aggregativa (associazione,
sindacato, chiesa, partito), proponi un approfondimento
sul tema usando il kit come materiale informativo.


7. Se formi un gruppo di sensibilizzazione o di impegno sul
tema, segnalalo al Centro Nuovo Modello di Sviluppo
(coord@cnms.it). Servirà a fare nascere una rete che
insieme potrà decidere eventuali iniziative nazionali.



















Il voto siciliano tra astensionismo e grillismo


Piero Di Giorgi

Per la prima volta, la partecipazione dei siciliani al voto del 28 ottobre, già sempre inferiore a quella del centro-nord, scende sotto la soglia preoccupante del 50% e precisamente al 47,6, meno di un cittadino su due.
Cosa vuol dire questo? Certo, vuol dire quello che hanno sottolineato quasi tutti i giornali: la crisi della politica, in particolare la crisi della rappresentanza, la frattura tra rappresentanti e rappresentati, tra istituzioni e popolo, la rabbia della stragrande maggioranza degli italiani, colpita e  costretta a stringere la cinghia dalla crisi, nel vedere i privilegi, le ruberie, le scandalose retribuzioni, la corruzione, i cumuli d’incarichi delle poche migliaia di satrapi che ruotano intorno alla politica. Ma, in Sicilia, c’è qualcosa di più. I siciliani hanno sempre sopportato ingiustizie, privilegi passivamente, salvo farsi illudere dai viceré di turno e qualche volta anche ribellarsi violentemente. Inoltre, sono anche scarsamente politicizzati e, se gli italiani sono in maggioranza moderati e spoliticizzati, i siciliani lo sono ancora di più e facilmente soggetti al clientelismo, alle promesse, a legarsi ai saprofiti di turno per ottenere qualche diritto come favore, trasformandosi da cittadini a sudditi. Per questo in Sicilia ha vinto sempre la destra e l’ultimo incantatore a cui si sono affidati è stato Berlusconi.
La delusione generata da Berlusconi non ha sospinto i siciliani a votare lo schieramento di centro-sinistra. Neppure Grillo è riuscito ad attrarli come nuovo messia e ad arginare l’astensionismo. I siciliani, nella loro maggioranza, hanno preferito disertare le urne. Pertanto, il successo di Grillo è dovuto più a un trasferimento di voto da parte di cittadini delusi della sinistra che a un recupero di voti di potenziali astenuti.
Detto questo, sembra fuori luogo l’ostentazione della vittoria proclamata da Bersani. E’ vero che, per la prima volta dopo la liberazione, diventa governatore un eletto del centro-sinistra ma sulle macerie dei partiti. Il PD perde oltre 5 punti percentuali sulle elezioni del 2008, il PDL, dilaniato, è in caduta libera con oltre 20 punti percentuali in meno; l’UDC perde circa due punti; SEL, Italia dei valori, FLI non raggiungono il quorum.
A fronte di questo tsunami, s’impone una riflessione. I siciliani potranno pure pensare, con l’astensionismo di massa, d’inviare un messaggio di rifiuto, di rabbia, di repulsione ai partiti e ai professionisti della politica. Questo può, tuttavia, avere un senso se da domani cominciano a partecipare alla vita politica locale, a considerare la propria città la casa comune, a non delegare i propri problemi e disagi ma a organizzarsi tutti insieme, perché la politica non è una professione ma è un tempo che ciascuno di noi dedica alla cosa pubblica, sottraendolo al proprio tempo libero e alla propria famiglia. Se le cose vanno male come vanno, è perché si considera la politica una sfera estranea a noi e che necessariamente spetti farla agli altri.  Ma se continuiamo ad avere questo atteggiamento e per di più non andiamo a votare quelle poche volte che possiamo decidere, lasceremo che siano gli altri a decidere per noi. Non solo, se astensioni di queste dimensioni dovessero generalizzarsi e ripetere, sarebbero sempre più pochi a decidere. A tal punto, coloro realmente tengono in mano le leve del potere potrebbero  decidere, dopo un po’ di tempo, che non è più il caso di fare le elezioni visto che sono in pochi a votare. Ma, a quel punto, non potrete più nemmeno protestare perché ci saranno i miliziani dietro la porta che vi porteranno in galera. Come dicono i francesi A bon entendeur peu des mots (a buon intenditore poche parole).


martedì 16 ottobre 2012

curiosità elettorale

La campagna elettorale per il rinnovo del parlamento regionale è in pieno svolgimento. C'è la solita calata dei leaders nazionali e c'è anche la famigerata gara a colpi di gigantografie , di affissioni di manifesti, di riempimento delle buche dei cittadini di lettere dei candidati con le loro note biografiche.
Diamo conto di una sintesi di una di queste lettere, il cui autore è il dott. Gianni Pompeo, ex sindaco di Castelvetrano, non solo per certi contenuti biografici , che possono suscitare ilarità, ma anche perché ci è pervenuta una risposta di un noto cittadino di Castelvetrano, che abbiamo ritenuto di pubblicare.
Pompeo, annunciando la sua candidatura, esordisce col dire che non promette nulla né offre nulla in cambio del voto. Poi elenca i suoi meriti, tra i quali cita la sua completa onestà nella sua professione di medico, di marito, di padre, che ha accompagnato la figlia all'altare con emozione, nella sua esperienza politica. Pompeo elenca poi le cose che ha fatto in 10 anni di sindacatura, in verità niente di eccezionale ma ordinaria amministrazione e anche con diverse critiche. Conclude la sua lettera pregando i cittadini di valutare il suo operato dalle cose fatte e chiedendo loro di stringersi intorno a lui per farlo diventare deputato.


LETTERA APERTA DI GIANFRANCO BECCHINA AL CANDIDATO UDC
GIANNI POMPEO
Egregio candidato Gianni Pompeo,
nella mia cassetta postale ho trovato una lettera con la quale Lei informa “amici” (?) e concittadini del Suo tentativo di persistenza nel cimento politico ( Atto, invero, alquanto immotivato), ragione per la quale Ella invita gli uni (?) e gli altri, a soccorrerla in occasione della prossima consultazione elettorale del 28 ottobre.
Personalmente, e nella sola veste di concittadino, non mi lascio certo sfuggire l’insperata e forse irripetibile opportunità che mi offre la Sua missiva, per scrivere, finalmente, ciò che penso. E La ringrazio, perché mi consente di assolvere, in tempo, a un mio imprescindibile dovere morale: darle il Suo!
Intanto, memore del corposo “Libro Bianco” con il quale, più baldanzoso di Mosè redente dal monte Sinai con le tavole ancora fumanti dei Dieci Comandamenti, Ella si propose per la “seconda” sindacatura (le sciagure, di solito, non si presentano mai sole) una volta bruciati i primi cinque anni, rimango sgomento di fronte al fatto che Ella si sia risolto a tradurlo nella stringata stitichezza di un mezzo foglio ciclostilato.
Da apprezzare, comunque, l’onesta coerenza tra la miserabilità del foglio e la quantità e qualità delle opere realizzate nei dieci anni che l’hanno vista sul trono della nostra sciagurata città! Un foglio il Suo, piagnucoloso quanto irritante come può esserlo un miliardario riconosciuto travestito da mendicante. Il De Amicis commuoveva col suo autentico sentimento fanciullesco e anche ingenuo; nulla di tutto ciò ritrovo nel Suo maldestro tentativo di emulare il buon Edmondo. Neanche Fogazzaro riesce Ella a richiamare alla memoria sfoggiando lusinghe alla famiglia: moglie, figlia condotta all’altare e focolari domestici pascoliani. Per non dire delle sbandierate quanto puntualmente tradite buone azioni, di cui sono lastricate le strade dell’impero di Satana.
Siamo ormai stufi, signor Pompeo, di certi politicumanti (mi consenta lo svarione)! Lo sterco del Demonio ha reso l’aria irrespirabile e, com’era inevitabile, siete riusciti ad affamare i poveri e a fare scempio di tutto lo scempibile (chiedo ancora venia)! Complimenti per il “sistema delle piazze”! Le avete proprio “sistemate” a dovere!
I Suoi dieci anni di indefessa (stando alle Sue affermazioni) attività amministrativa hanno davvero partorito ben misere realtà, alcune zoppe per giunta. Veramente troppo poco per vantare titoli di merito.
In un contesto storico in cui i popoli progrediscono a velocità supersonica, Lei non può, e non lo può davvero, dichiararsi fiero delle Sue insignificanti realizzazioni. A meno che non ritenga che i Suoi concittadini non abbiano titolo per aspirare a nient’altro che non siano le solite minuzie. E sol perché lo abbia deciso Lei, in ristretta compagnia.
Nessun accenno alla benché minima opera di promozione del territorio con finalità turistiche, fuor di dubbio l’unica vera risorsa alla quale aggrapparsi. E ancora, Lei sollecita i destinatari del Suo appello a stringersi “intorno” alla Sua persona per “insieme” conseguire lo scopo della Sua assunzione al Parlamento siciliano.
Tutto il contrario, questa volta, della Sua inveterata abitudine di infischiarsi dell’opinione dei cittadini: come quando si è guardato bene dall’ interpellarli per certi Suoi atti d’imperio relativi a decisioni che hanno comportato alcuni stravolgimenti del patrimonio della città, rappresentato dalle sempre più maltrattate vestigia storiche.
Per non dire delle conseguenze che, da queste impennate d’ingegno, sono derivate alla quotidianità della vita di tutta la collettività, con il becero piano del traffico stradale cittadino. Realtà, questa, alla quale Lei si guarda bene dal fare cenno. Lei, in verità, dice una grossolana menzogna, quando fa intendere che predilige operare in sintonia con il popolo.
Non senza un ultimo accenno al Suo autoincensamento in termini di onestà che, quando non abbinata alla capacità di operare, si può tranquillamente considerare perfettamente inutile - forse nemmeno buona a guadagnarsi il paradiso - tralasciamo le mille altre quisquilie, e disservizi, che tutti possono vedere con i propri occhi. Beati i ciechi!
Passiamo, quindi, alle cose spinose, che non vanno proprio nella direzione dei peculiari meriti che si auto attribuisce, e delle quali si guarda bene dal fare il benché minimo accenno nel Suo sollecito epistolare.
Si da il caso che abbiamo appreso recentemente della solenne batosta incassata dalle finanze del nostro Comune. Mi riferisco alla sentenza della Suprema Corte che condanna l’amministrazione, da Lei presieduta negli ultimi dieci anni, a pagare ad una società privata (Saiseb) l’astronomica somma di 3, 6 milioni di euro (oltre 7 miliardi delle rimpiante vecchie lire), per un credito dalla stessa vantato in virtù di lavori eseguiti per conto della nostra municipalità.
È vero che la faccenda riguarda lavori appaltati negli anni ottanta, eseguiti chissà quando, probabilmente in tempi in cui Lei era ancora un semplice consigliere. Ma è altrettanto vero che la controversia scaturita appariva sicuramente perdente per il Comune, già all’epoca in cui un arbitrato, in corretta forma, stabilì che la società creditrice aveva pieno diritto alla somma di ulteriori tre miliardi e mezzo di lire.
Presente o non presente, responsabile o meno che Lei fosse stato, per questo pastrocchio disastroso per la città tutta, che cosa ha fatto per limitare il danno, nel corso degli ultimi dieci anni, ricadenti, in toto, nel periodo della Sua amministrazione? La materia del contendere era ancora di 3, 5 miliardi delle vecchie lire, giusto la metà di quanto noi cittadini saremo oggi costretti a pagare.
Come mai, i super burocrati dell’Ufficio Tecnico Comunale, i soli in grado di valutare torti e ragioni delle parti, alla luce delle norme sui lavori pubblici, non hanno attirato la Sua attenzione sul pericolo incombente, per limitare il danno, anche in modo considerevole, se gestito in modo transattivo? Siamo proprio curiosi di leggere le motivazioni della pesante sentenza, per capire quanta incompetenza, tecnica e giuridica, possa aver esizialmente giocato in tutta la vicenda. Certo che, detto fra noi, egregio candidato Pompeo, Lei ha obbiettivamente servito una grossa patata bollente al Suo successore. Ovviamente, con l’onestà che la contraddistingue. E su questo non ci sono dubbi.
Vedrà che, come spesso accade, i cittadini, poco e male informati, non mancheranno di dare la colpa del Suo gravissimo scivolone e dei futuri disservizi, inevitabilmente causati dalla mancanza di quei fondi così scientemente sperperati, al loro incolpevole nuovo sindaco. E, magari, ignari della verità che Lei, onestamente si guarda bene dal raccontare, rimpiangeranno l’illuminata, onestissima precedente gestione.
E, intanto, Lei avrà preso il volo verso altri lidi, caparbiamente affezionato al campione di trasformismo qual è Ferdinando Casini, indiscusso capo di quell’ UDC affannata ad esserci comunque; personaggio ondivago come più non si potrebbe, con il supplemento della sindrome ciarlatanesca. Pontificante su tutto e tutti, nella classica posizione del bue che dice cornuto all’asino. Instancabile nomade nel panorama politico: dalla DC di Forlani alla Sicilia di Cuffaro, passando per l’uomo di Arcore e le esplorazioni a largo raggio. Per sua fortuna, vasto è l’universo e idoneo al suo vagabondaggio.
Questo è, dunque, il suo nume tutelare, attivo e ben presente in Parlamento, quando sono state e vengono ancora scritte pagine ingloriose della storia d’Italia. Imperterrito nell’impasticciarsi col primo che capita, rigorosamente escluse le alleanze minimamente decenti, pur di partecipare al banchetto del potere. E, va da sé, prescindendo, e oltre ogni limite, dai requisiti civili e morali di certi personaggi: Cuffaro et similia docent. Quello stesso dottor Cuffaro, dottor Pompeo, che, nello stesso momento in cui dilapidava le risorse della Sicilia, dal palco di piazza Garibaldi, e in Sua compagnia, mano nella mano, su e giù per il corso di Castelvetrano, perorava la Sua rielezione a sindaco.
Ma veramente dobbiamo continuare a meritarci, come Lei onestamente suggerisce, questa genìa di personaggi della quale Lei onestamente fa parte? È scritto nel cielo che dobbiamo sempre cascarci?
Concludo nel sostenere che la nostra città, per quel che ancora rimane dopo il suo disastroso impegno, “merita” ben altro delle vaghezze, anzi del nulla rivestito di niente, che Lei onestamente propone, e che, nell’attesa di un valido rappresentante, capace di affrontare i gravi problemi della nostra gente, può continuare a sopravvivere come ha fatto finora. Orfana della Sua persona, sempre che non si risolva a ritornare ad esercitare la professione medica nella nostra città. La politica “dovrebbe” essere una cosa seria. E una persona, onesta come Lei, non può prestarsi a un “condizionale”! Aspetti un “presente”, se mai ci sarà.
Non mi resta che declinare il Suo accorato invito a votarla, non fosse che per la palese sua onesta inidoneità a rivestire cariche pubbliche.
Dulcis in fundo, non posso non congratularmi per la Sua brillante, onesta, promessa di non promettere; che non è un gioco di parole, ma una onesta e prudente messa di mani avanti, destinata ai futuri “petulanti”.
Stando così le cose, prenda il Suo “libro bianco” e lo scaraventi contro un Suo manifesto elettorale, similmente a quel che fece Mosè, contro il vitello d’oro, con le tavole della legge.

mercoledì 4 luglio 2012

Il ragioniere Monti completa l’opera del ragionier Tremonti: scannare il popolo. E’un’urgente necessità che il 99% si ribelli contro l’oppressione dell’1%.
di Piero Di Giorgi

In uno dei miei ultimi libri, in un capitolo dedicato all’economia, scrivevo che tutti gli economisti (di centro-destra o di centro-sinistra) tranne i pochi dell’”altra economia”, si sono indottrinati all’unica bibbia del capitalismo nella sua forma storica attuale di neoliberismo.
Lo stimatissimo prof. Monti, presentato come il deus ex machina che doveva risolvere la crisi italiana e salvare l’Euro, non sfugge allo stereotipo, conosce la solita e unica ricetta secondo i canoni del Fondo monetario internazionale, che ha fatto fallire prima l’Argentina, che ha messo in ginocchio la Grecia e senza accorgersi che la globalizzazione neoliberista ci ha condotto a questi disastri e che bisogna cambiare ottica. Alla fine, il professore Monti si è comportato come un semplice ragioniere, come aveva fatto Tremonti. Un’operazione ragionieristica molto semplice di tassare lavoratori a reddito fisso e pensionati, continuando l’opera di drenaggio di ricchezza dalle tasche dei più poveri a quelle dei più ricchi, aumentando ulteriormente le insopportabili disuguaglianze che si sono moltiplicate negli ultimi due decenni. Dei tre slogan, rigore, equità e crescita, è rimasto un intollerabile e barbarico tartassamento di lavoratori dipendenti, pensionati e ceto medio già proletarizzato, non solo bloccando l’adeguamento alla svalutazione monetaria, perfino dei redditi di appena 900 Euro, mentre si è agito soft swui ladri che portano i capitali al’estero, ma aumentando la tassazione con le addizionali Irpef, con tagli al servizio sanitario nazionale, con aumenti e introduzione di nuovi tickets, proseguendo nell’abbattimento dello stato sociale, impoverendo la gran massa dei cittadini. Si ritassa la prima casa di coloro che pagano il mutuo con grandi sacrifici, già abolita da Prodi per le classi meno abbienti, si mettono i tickets anche sugli esenti e sui ricoveri in ospedale. Si rimette mano alle pensioni, facendo strame dei diritti quesiti, della aspettative, delle speranze, di ogni certezza del diritto, aumentando l’età pensionabile anche di coloro con 40 anni di anzianità, introducendo ex abrupto il passaggio al sistema contributivo per tutti, giusto in linea di principio, ma non per coloro che sono in dirittura d’arrivo. Non solo non c’è l’ombra di equità ma il trionfo dell’iniquità, un disprezzo e un accanimento verso i più poveri, non c’è neppure la tanta promessa crescita, conditio sine qua non per potere pagare gli interessi del debito. Infatti, una regola fondamentale della stessa economia capitalista che s’insegna, nel primo anno di università, agli studenti di giurisprudenza e di economia, è che, se si comprimono i salari, gli stipendi e le pensioni, si riduce la domanda d’acquisto e quindi i consumi, di conseguenza l’economia ristagna ed entra in una fase recessiva. Sono spariti dalla manovra l’aumento dell’aliquota per i redditi più alti, ogni traccia di una patrimoniale, l’abolizione dei vitalizi dei parlamentari, l’abolizione degli sprechi e dei privilegi della politica, dei tanti enti e consigli di amministrazione, foraggiati con scandalose retribuzioni, le offensive e vergognose retribuzioni di manager e le ancora più inammissibili liquidazioni milionarie per qualche anno in una banca o in un ente pubblico. Infine, ridicole le misure per combattere l’evasione e nulla contro la corruzione, due misure che insieme basterebbero a eliminare il debito pubblico. Una vera vergogna che non può non ingenerare una grande indignazione e una grande opposizione sociale.
Non è più sopportabile la protervia, l’arroganza di questi signori e la loro pervicacia nel perseverare a massacrare i più deboli. Risulta del tutto evidente l’attualità dell’analisi marxiana che individua nei governi il comitato di gestione delle classi dominanti e che, in ogni epoca, le idee dominanti sono quelle delle classi dominanti, che hanno al loro sevizio schiere di ideologi (intellettuali, economisti, giornalisti ecc.). E’ urgente che il 99% dei cittadini del mondo si ribellino all’1% che li opprime, che li priva di diritti umani fondamentali, che li costringe in una condizione alienante di disagio sociale, di sofferenza e di dolore. Nutro la speranza che quei milioni di indignados che occupano varie piazze e edifici-simbolo nel mondo diventino qualche miliardo e che mostrino tutta la loro rabbia da far paura a qull’uno per cento che decide la vita di tutti di noi.

Il ragionere Monti e la spending review

L'attuale crisi internazionale, che ormai si trascina da 4 anni, ha fatto emergere l'evidenza che ci troviamo di fronte a una crisi strutturale e sistemica e che occorre ripensare il modello di sviluppo.


In particolare, per quanto riguarda l'Italia, si sono manifestate gravi carenze strutturali ed endemiche (ritardi nell'adeguamento tecnologico del sistema produttivo, l'aggravarsi del debito pubblico, terzo nel mondo per entità, i freni della burocrazia, le oscene disuguaglianze tra lavoratori dipendenti e manager, passate mediamente da 1 a 30 a 1 a 300, evasione fiscale e corruzione, disoccupazione a livelli preoccupanti, soprattutto, quella giovanile) tali da postulare con urgenza la necessità di un riconfigurazione generale di sistema e una grande rigenerazione morale.

Il governo Monti e il suo c. d. governo dei tecnici, sorto in condizioni emergenziali e con il sostegno della strana alleanza, avrebbe avuto l'opportunità di imprimere una svolta per sanare l'Italia dai suoi mali antichi e dare una sterzata profonda. Ma, paralizzato dalla sua ideologia classista e neoliberista e probabilmente da carenza di studi umanistici, senza i quali si resta prigionieri di un'arida economia fatta di statistiche e numeri, dimenticando che dietro di essi vi sono persone di carne e di sangue, ha eluso il compito straordinario di cui è investito, riducendolo a una modesta prassi ragionieristica, che pensa a fare quadrare i conti, evitando accuratamente d'intervenire sui privilegi, sugli sprechi e tartassando sempre i lavoratori dipendenti pubblici e privati e i pensionati, attraverso tassazione, tagliando servizi e spesa sociale (sanità, scuola e ricerca, che dovrebbero essere i motori primi della ripresa).

In corso d'opera, il governo tecnico ha ritenuto di dovere nominare dei supertecnici, con il compito di revisionare la spesa pubblica. Ma anche i supertecnici hanno proseguito sulla stessa strada (licenziamenti nel pubblico impiego, anziché razionalizzazione e snellimento e semplificazione della prassi burocratica, tagli di posti-letto negli ospedali, del fondo sanitario nazionale e all'università, aumentando, di contra, i contributi alle scuole non statali. Tagli anche alle regioni, le quali tanto si rifanno aumentando l'addizionale regionale IRPEF ai soliti noti, anziché vietare le assunzioni clientelari, facendo pagare di persona i politici che le fanno, come nel caso della Sicilia, in cui il presidente Lombardo, prima di lasciare il campo, ha assunto altri 100 dirigenti.

In definitiva, l'Italia l'Italia è in recessione di circa il 2%, aumenta la disoccupazione, in particolare quella giovanile è al 36%, l'evasione è stata soltanto scalfita ma resta altissima, lo stesso dicasi del sistema di corruttela. Non si toccano gli stipendi e le pensioni scandalose, non si eliminano gli enti inutili e i relativi consigli di amministrazione con lauti e inammissibili compensi,non si riduce il debito pubblico. Evasione e corruzione ammontano a circa 200 miliardi, che in 10 anni riporterebbe a zero il debito pubblico. Se si volesse davvero colpire l'evasione, si dovrebbe approntare una grande riforma fiscale nella direzione della redistribuzione del reddito, come previsto dall'art. 53 della costituzione. Si introdurrebbe la galera per evasori e corrotti e corruttori. In tal modo, oltre ad azzerare il debito pubblico, si potrebbe riportare la pressione fiscale a livello della media europea, aumentando il reddito degli onesti, in particolare dei lavoratori a reddito fisso e pensionati, rimettendo in moto l'economia.

La situazione è arrivata a un punto tale e il disagio è così diffuso che soltanto una vasta mobilitazione di massa può costringere le oligarchie politiche, economiche, mediatiche, obnubilate dai loro scandalosi privilegi, ad abbandonare l'arroganza, il disprezzo e l'insensibilità verso il disagio della gran massa dei cittadini. E' ora di dire basta, non ne possiamo più.

mercoledì 15 febbraio 2012

La malattia autoimmune del neoliberismo finanziario globalizzato e la rabbia dei poveri

La malattia autoimmune del neoliberismo finanziario globalizzato e la rabbia dei poveri

di Piero Di Giorgi

La maggior parte degli italiani, anche se una maggioranza risicata, ha ancora oggi fiducia che il governo Monti ci farà uscire dalla crisi. Il mio modesto parere, invece, è che ci troviamo soltanto di fronte a una tregua. E ciò per due motivi: il primo perché la crisi è sistemica e perciò strutturale e quindi non curabile all’interno dello stesso modo di produzione; il secondo perché i rimedi che vengono perseguiti e messi in atto sono peggiori del male e cioè sono politiche non “salva Italia” ma “ammazza popolo”, che riducono i salari, gli stipendi, le pensioni e l’occupazione e quindi producono recessione e disoccupazione. S’impongono sempre più sacrifici senza escludere l’ipotesi del fallimento come sta avvenendo in Grecia, dove stanno strozzando un popolo. E quel che è più grave è che non si determini, come una valanga impetuosa, una grande protesta di popolo e di solidarietà coi greci, almeno a livello europeo. Cosa fanno i sindacati europei? Sembra che non traggano ammonimento dal famoso passo di Bertolt Brecht: Prima sono venuti a prendere gli zingari e io ho taciuto, poi sono venuti a prendere gli omosessuali e io…. E così via.

La verità è che, dopo la caduta del muro e delle ideologie, è rimasta un’unica ideologia, quella del neoliberismo finanziario globalizzato. E’ finito quel compromesso tra capitale e lavoro, tra capitale e democrazia, che, grazie alle centenarie lotte del movimento operaio, garantiva una certa redistribuzione della ricchezza, un sistema di sicurezza sociale, una dialettica democratica.

Oggi ci troviamo di fronte a un attacco di classe tra i più violenti della storia della modernità, frutto dell’ingordigia e dell’avidità del gruppo sempre più ristretto dei ricchi. Un’ingordigia, un’albagia e un’avidità che ha prodotto un crollo della ragione tale da determinare una sorta di malattia autoimmune del capitalismo che divora se stesso. Il nuovo capitalismo finanziario ha chiesto detrazioni e incentivi fiscali per investire, riduzioni di salari per reggere la competitività, ma ha scelto la via del guadagno finanziario facile, anziché quella degli investimenti. Perciò, l’economia reale è sempre più in crisi. Per una fase, lor signori gli speculatori hanno tenuto il malato in coma farmacologico, attraverso cartolarizzazioni e derivati, che hanno rapinato amministrazioni ed enti pubblici e hanno messo sul lastrico piccoli risparmiatori. Poi, i governi sono intervenuti a salvare le banche, le quali, a loro volta non prestano i soldi né ai privati né alle imprese. Le disuguaglianze hanno raggiunto un livello tale che, prima la classe operaia e poi il ceto medio sono stati ridotti allo stremo e non riescono neppure a soddisfare le loro esigenze primarie. Allora chi deve comprare le merci che vengono ancora prodotte? Per una fase lor signori non si sono preoccupati più di tanto perché pensavano che comunque ci sarebbe stato il grande mercato del BRIC (Brasile, Russia, India, Cina), ma non hanno fatto i conti con la grande espansione delle esportazioni della Cina, con la crisi incipiente del Brasile e con i conflitti interni alla Russia ecc.

Di conseguenza, la crisi la si fa pagare sempre ai soliti lavoratori a reddito fisso e ai pensionati, anche perché è più facile. E’ una semplice operazione ragionieristica. Basta applicare un’aliquota sugli stipendi, i salari e le pensioni. Lo fanno anche la regione Sicilia, i comuni, le province. La Regione, in particolare, non utilizza i fondi europei per creare infrastrutture (strade, ferrovie, beni culturali, messa in sicurezza delle coste ecc.), assume, per clientela politica, nuovi lavoratori, ingrossando pletoricamente gli organici, paga i suoi dipendenti lautamente, compie sperperi di ogni genere, e poi come colma i suoi deficit? Aumentando l’addizionale IRPEF su stipendi, salari e pensioni.

Lo ripeto, ci troviamo di fronte a un attacco classista senza precedenti, ma anche di fronte a un capitalismo che divora se stesso. Cosa credete che ci sia dietro l’art. 18 se non l’attacco classista concentrico da parte delle organizzazioni internazionali con FMI ( Fondo monetario internazionale) e Banca Mondiale in primo piano e fino alla burocrazia-tecnocrazia europea? La mano è unica e non è “la mano invisibile dello Stato”tanto cara ai neoliberisti, ma il grande capitale finanziario, che siede nella direzione degli organismi internazionali oltre che nei consigli d’amministrazione delle grandi multinazionali e delle banche; che possiede anche i grandi giornali e mezzi di comunicazione attraverso i quali diffonde l’ideologia del pensiero unico, che, da una parte ispira o detta le solite ricette pesanti che fanno pagare ai popoli le loro speculazioni, dall’altra, delegittima la politica attraverso l’ideologia dell’antipolitica, che trova facile varco anche per i comportamenti per nulla esaltanti che offrono i partiti. La democrazia è stata imbracata. L’Europa non ha un Parlamento che prende le decisioni, non ha un governo, una politica estera ed economica unitaria. Le decisioni vengono prese dalle tecnocrazie europee, in connessione con il FMI e la Banca mondiale e quando si discute di rimedi per uscire dalla crisi, questi non nascono da decisioni prese dalla politica, per dare regole ai mercati e tassare le speculazioni. Anzi, per ogni nuovo colpo che vogliono assestare ai lavoratori a reddito fisso e ai pensionati (blocco dei salari e delle pensioni, art. 18 e licenziamenti, tasse e addizionali varie) si richiamano alla parola magica “dio mercato”. Ormai è un’ossessione compulsiva: lo chiedono i mercati, bisogna rassicurare i mercati, i mercati non hanno ancora fiducia, sono le litanie che giornalmente ci propinano. Il mercato viene soggettivizzato, personificato, anzi deificato, è il nuovo mantra che, in verità, non è altro che gli speculatori, quelli che rubano il futuro ai giovani, alle donne, ai popoli, insieme alle tre agenzie di rating (Mood’s, Standard § Power, Fitch) che, stilando giudizi e dando pagelle, si sono abbuffate di soldi.

Dov’è la sinistra organizzata in tutto questo? Cosa propone in alternativa alle ricette del pensiero unico? Niente. Gli unici che hanno capito la situazione, sono quelle masse di giovani, donne, lavoratori, studenti, che occupano Wall Street, che, simbolicamente, significa che è lì la causa di ogni male e che è lì che si deve colpire. Basta neutralizzare quell’1% per salvare il 99%.

giovedì 1 dicembre 2011

un ricordo diLucio Magri

Un ricordo di Lucio Magri
Piero Di Giorgi

Fra le tante persone eccezionali che ho avuto la fortuna di conoscere c’era Lucio Magri. Non era un mio amico. L’ho conosciuto per contingenze politiche. C’era stata una prova di riunificazione tra il PDUP, di cui io facevo parte, e Il Manifesto e, nel 1975, si formò un organismo paritetico delle due formazioni politiche e quattro di noi del PDUP andammo alla direzione politica del Manifesto.
Tutti i giorni, alle ore 14, si riuniva la redazione nella stanza di Luigi Pintor per discutere dei contenuti del giornale del giorno successivo. Insieme al direttore Pintor, c’erano Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Lucio Magri, Valentino Parlato, Corradino Mineo e altri. La mia fu un’esperienza che durò soltanto un anno ma fu intensa, non solo per la tensione morale e ideale che aleggiava in quegli incontri ma fu anche una scuola di giornalismo, perché quel gruppo d’intellettuali straordinari faceva volare alto il quotidiano comunista e lo rendeva molto apprezzato e considerato nel panorama giornalistico dell’epoca.
Dicevo che quell’esperienza è durata soltanto un anno, sia per divergenze di linea politica tra le due componenti e soprattutto per il rifiuto dei fondatori del Manifesto, in particolare Lucio Magri, di farlo diventare organo del PDUP. Si consumò così la rottura e io seguii la linea Foa-Miniati, uscendo dal giornale.
Ho potuto essere testimone, in quell’anno o poco più, dell’onestà intellettuale e della passione politica di Lucio Magri, delle sue eccezionali e brillanti capacità di analisi e di grande affabulatore, non solo all’interno del giornale ma anche nelle sue funzioni di leader del PDUP. Io che ero un po’ più giovane di lui, confesso che ne subivo il fascino.
Spesso, si parla male, e anche a ragione, della spregiudicatezza, dell’eccessiva pragmaticità di tanti politici e si estende un giudizio negativo alla politica in generale. Si dimenticano figure fulgide che hanno vissuto e praticato la politica con grande lealtà, passione, dedizione, servizio alla collettività, come Enrico Berlinguer, Pietro Ingrao, Giorgio La Pira, Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Vittorio Foa e tanti altri. Ebbene, Lucio Magri era tra questi. Un esempio di uomo, nel quale erano confluiti valori e ideali evangelici e marxiani, interpretati con estrema coerenza nella prassi quotidiana, vissuti con la passione e l’ardore dei neofiti e con la razionalità che deriva da una coscienza matura.
Anche per questo Lucio Magri è morto. E’ morto come è vissuto. Dolorosi vissuti personali e l’amara constatazione del fallimento dell’utopia egualitaria, la difficoltà ad accettare la discrasia tra gli ideali perseguiti nella sua lunga vita e la realtà di un mondo in cui ingiustizia e disuguaglianze imperversano e trionfano lo hanno tuffato in una spirale depressiva, che colpisce, spesso, gli uomini più sensibili e che ti fa decidere per la chiusura di un ciclo.
E’ giusto, è sbagliato quel gesto così irreversibile? Io non lo so. Bisogna trovarvisi dentro in quel turbine ossessivo della mente. Nessuno può giudicare. La sua morte merita rispetto come la vita che ha vissuto.

domenica 13 novembre 2011

governo tecnico. Cos'é?

La querelle governo tecnico o politico
Piero Di Giorgi

In questi giorni bui per l’Italia, si assiste a una strana querelle tra governo “tecnico” e politico e viene anche detto che il governo tecnico è una sconfitta della politica. Ma di cosa parliamo? A me sembra che la questione, in verità, rileva, sotto il significato letterale delle parole, una concezione falsa e distorta della politica. E precisamente, con la suddetta artificiosa distinzione, emerge una concezione della politica come di un’oligarchia di esperti professionisti dediti a vita agli affari della res pubblica e guai quindi a invadere il loro campo. In verità, la politica, come il termine di origine greca denota, significa dedicarsi alla polis, cioè alla città, alla cosa pubblica, al bene comune. E questo compito dovrebbe essere sentito da tutti i cittadini consapevoli che vogliono esercitare la cittadinanza attiva, cioè partecipare e non semplicemente delegare. Quel che avviene oggi è una distorsione della politica con la P maiuscola ed è per questo che il professionismo politico porta a quei privilegi di casta a tutti ben noti. Invero, dovrebbe esserci una legge che prevedesse che chi non ha un lavoro o una professione non possa dedicarsi alla politica. Mentre un artigiano, un operaio,un insegnante, un professionista che voglia dedicare un periodo del proprio tempo alla politica istituzionale come rappresentante (deputato, senatore, sindaco), può partecipare a questi ruoli istituzionali soltanto per un tempo limitato (ad esempio non più di due mandati). Durante questo periodo in cui si rivestono cariche istituzionali, non si acquisisce nessun nuovo diritto in più né nuove pensioni, come si verifica oggi. Infatti, se uno è professore universitario o avvocato o altro, può cumulare la pensione della sua attività lavorativa e quella di senatore o deputato, e se ha fatto il deputato regionale e quello nazionale, avere anche una terza pensione. Sono abnormità inaccettabili. La logica vorrebbe che, se io mi dedico per un certo tempo alla cosa pubblica, debba sospendere il mio lavoro, la mia professione, per ritornarci alla fine del mio impegno pubblico, senza perdere nulla in termini di continuità di contribuzione ai fini pensionistici.
Questa sarebbe una bella riforma della politica. Si avrebbero non soltanto tanti risparmi, ma finirebbero anche tanti privilegi e certamente diminuirebbe anche la corruzione.
Ecco perché, allo stato attuale, i professionisti della politica si sentono lesi nell’essere sostituiti da un esecutivo tecnico, pur in una situazione di emergenza e coi pericoli di fallimento che corre il nostro Paese.
Oltre tutto, per governo tecnico s’intende un governo affidato a persone con particolari competenze, nella fattispecie di ordine economico, e che dovrebbe essere al di sopra delle parti. Ma questa è una sciocchezza, perché non esiste un tecnico neutrale né una scienza neutrale. Ciascuno di noi è invischiato nella sfera dei rapporti sociali ed è portatore, anche a livello inconscio, di idee, valori e determinati punti di vista. Perciò il vero rischio del governo Monti potrebbe essere, considerato che la stragrande maggioranza degli economisti si è abbeverata all’unica fonte delle ricette neocapitaliste, di prendere provvedimenti a senso unico, che colpisce i soliti noti. In tal caso, sarebbe bene che venisse affiancato dai capi di partito dell’ex maggioranza e dell’opposizione per potere operare una sorta di stanza di compensazione tra interessi opposti.

lunedì 12 settembre 2011

“L’obbedienza non è più una virtù. Ribellarsi è giusto”

Piero di giorgi

Uno spettro si aggira per il mondo, lo spettro della crisi del capitalismo globale. Una vera debacle per i suoi teorizzatori e per i suoi seguaci.
La crisi, per anni è stata negata da Silvio Berlusconi e dai suoi scherani e, quando, finalmente, qualche mese fa è stata ammessa, il rimedio è stato peggiore del male. Abbiamo assistito alla farsa drammatica (mi si passi l’ossimoro) di una manovra, cambiata più volte in pochi giorni, che ci ha esposto al pubblico ludibrio del mondo. Già il termine stesso dà l’idea di una manovra del conducente d’auto (marcia avanti, marcia indietro, a destra, a sinistra), di tentativi, di compromessi costanti e di mediazione tra interessi e privilegi diversi, con l’unico obiettivo alla fine di far pagare la crisi sempre ai soliti ceti medio bassi, lavoratori dipendenti e pensionati, che già devono fare acrobazie per sopravvivere. Una manovra, tra l‘altro, che va in direzione opposta alla ripresa dell’economia, che anzi la deprime ulteriormente. Il che non era difficile da capire. Lo sanno anche gli studenti del primo anno di diritto o di economia che se non si stimola la domanda, aumentando la capacità di spesa, l’economia langue. Il problema delle aziende è la scarsità della domanda perché i portafogli del popolo sono vuoti. Se si abbassano le tasse e si tagliano i contributi ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, aumenta la capacità di spesa e quindi la domanda di beni. Eppure, il livore classista di questo governo, la cui faccia emblematica è quella del ministro Sacconi (ex socialista), continua a persistere con misure che colpiscono sempre i più deboli, esasperando ancora di più le insopportabili disuguaglianze sociali, che hanno raggiunto livelli prima mai esistiti.
La crisi ha messo in luce con maggiore evidenza, se ancora ce ne fosse bisogno, la mediocrità della classe dirigente, anche a livello europeo, ma in particolare del nostro Paese, la cui cordata di governo, d’altronde e come è noto, è stata arruolata, in buona parte, non già per competenze e professionalità bensì per affinità elettive con il premier nell’ambito dei piaceri e degli affari, nonché per spiccate doti di gregarismo.
Dalla mediocrità non è esente tutta l’opposizione, compreso il PD, che non manifesta alcun progetto alternativo concreto e visibile e in cui la selezione della nuova classe dirigente avviene alla rovescia, premiando i porta-borse, burocrati di partito e i più disinvolti. Non risalta neppure la classe dirigente imprenditoriale, avida soltanto di profitti, non in grado di farsi carico di iniziative forti in direzione del bene comune e incapace perfino di protestare a fronte dell’inanità del governo. Soltanto ieri la Marcecaglia è arrivata a dire che se il governo non è capace di avviare la ripresa se ne deve andare. Più di venti miliardi di Euro, ogni anno, vanno alle aziende private e provengono dalle tasse che pagano i lavoratori dipendenti e i pensionati, un vero e proprio trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale, come dimostra con documenti alla mano un recente libro edito da Chiarelettere.
Le disuguaglianze hanno toccato livelli mai raggiunti prima, con una forbice che, se negli anni settanta era da uno a trenta, ora è da uno a trecento. Se prima una famiglia monoreddito riusciva a pagare il canone di locazione della casa e a soddisfare i bisogni essenziali, ora siamo in presenza di una condizione di irrazionalità tale per cui pagare la pigione costa più della retribuzione media di un lavoratore dipendente. I redditi fissi, quelli di coloro che pagano le tasse alla fonte, sono stati dimezzati dalle speculazioni avvenute nel passaggio dalla lira all’euro, mai controllate; né alcuna forza politica o alcun sindacato né alcun singolo parlamentare hanno alzato un dito per porre il problema di adeguarli; anzi continuano a essere sempre più erosi dall’inflazione e dalle varie addizionali imposte dagli enti locali. I bisogni dei più deboli non sono più difesi da nessuno. Siamo arrivati a un punto di assurdità tale per cui l’unico sindacato, la CGIL, che, di tanto in tanto, proclama uno sciopero, viene criminalizzato dalla destra e criticato dall’opposizione di centro e da settori della c. d. sinistra. Tra questi ultimi si distingue il giovane rampante sindaco di Firenze, il quale, nel mentre vuole “rottamare”i vecchi dirigenti per farsi spazio, crogiolandosi nei suoi privilegi della politica, mostra di essere indifferente alla condizione dei suoi coetanei che vivono nel precariato o con lo spettro della disoccupazione.
Si avverte in giro un senso di frustrazione diffusa, di rabbia e d’impotenza. Ci s’interroga sul che fare a fronte del fatto che le organizzazioni storiche sorte per organizzare il disagio siano latitanti.
Penso che la gravità della situazione (rischio default con tutte le conseguenze sulle retribuzioni e sulle pensioni) sia tale che, in mancanza di una rappresentanza, sorge l’urgenza di autorappresentarci. Ci sono stati nel corso di questi ultimi anni grandi movimenti di donne come quelle che si sono organizzate con lo slogan “se non ora quando”, movimenti di giovani delle scuole e delle università, di disoccupati e precari, di ricercatori e insegnanti, movimenti spontanei ed eterogenei come il “popolo viola”. Non è più il tempo di comparse episodiche per poi sparire, occorre una mobilitazione permanente di tutti per portare in piazza il disagio, chiedendo un nuovo modello di sviluppo e una più equa ridistribuzione della ricchezza, che è l’unico modo serio e strutturale per uscire dalla crisi.

venerdì 3 giugno 2011

Report dalla Palestina

Non mi capitava dal 2001, tre mesi dopo l’11 settembre, all’aeroporto di Miami, in transito per il Guatemala, quando sono stato sottoposto a un controllo in tutte le parti del corpo e per un lungo tempo. Mi sembrava la stessa atmosfera al terminal n. 5 di Fiumicino, il 12 maggio, in attesa di partire per Tel Aviv. Due ore d’interrogatori e di controlli. Finalmente c’imbarchiamo. Siamo una delegazione di sei persone (Gian Luca, Loretta, Franco, Carla, Tullio e io) organizzata dalla Provincia di Roma in collaborazione con la CGIL di Modena e un “Ponte per”, con lo scopo di monitorare alcuni progetti della cooperazione italiana in Palestina.
All’aeroporto di Tel Aviv, dove giungiamo dopo 3 ore e un quarto, troviamo Meri e Davide, due amici cooperatori, coi quali ci avviamo al campo profughi di Betlemme, dove alloggeremo tre giorni presso l’IBDAA Cultural Center. Ci viene comunicato dal consolato che non c’è il permesso per Gaza e che se ne parlerà Domenica 15. Il pomeriggio è occupato da una scarpinata sulla collina, dalla quale si può ammirare Betlemme e la valle del Giordano. Prima di cena, insieme a Giorgio, un amico fotografo, che opera in Palestina, mi reco a visitare la Chiesa della natività al centro di Betlemme. Un buon ristorante panoramico ci fa gustare la buona cucina palestinese. Di ritorno al campo dove dormiamo, troviamo nella piazzetta un’atmosfera festosa di musica e danza in occasione di un matrimonio. Invitati, partecipiamo per un’oretta alla loro festa.
L’indomani mattina, partiamo per Gerusalemme. E’ l’antivigilia della Nakba, la ricorrenza festosa per Israele, perché segna la nascita del suo Stato nel 1948, infausta per i Palestinesi, per i quali comincia la tragedia dell’occupazione e dei soprusi. C’è una manifestazione dei palestinesi di fronte all’ingresso della porta di Damasco e tanta polizia israeliana in assetto di guerra. Poi c’inoltriamo per il Suk di Gerusalemme, attraverso la via Dolorosa fino a giungere alla Basilica del Santo Sepolcro e della resurrezione. Dopo una breve visita, passiamo dal Muro del pianto, dove assistiamo per un po’ al rituale ebraico della sbattuta della testa al muro.
Interessante la visita, nella mattinata del 14, al Dialogue cultural center, dove abbiamo interloquito con il presidente, lo scrittore Nasser Iberahine. Il centro è composto d’intellettuali israeliani e palestinesi, i quali, oltre a dialogare tra loro per trovare punti di convergenza, cercano di fare opera di politicizzazione e chiarificazione per giungere a una lotta su obiettivi comuni, benché difficile finché ci sarà l’occupazione. E tuttavia, per la prima volta, è stato organizzato un convegno a Ebron con molti partecipanti. Quanto ad Hamas, Nasser ci ha detto che si tratta di un movimento politico realistico e pragmatico, anche se vi sono gruppi integralisti che hanno ucciso altri palestinesi, affermando, di contro, la laicità cui s’informa l’azione del suo centro. Riguardo al cambiamento avvenuto in Egitto, ha sottolineato che Mubarak era un fantoccio dell’America e che oggi l’Egitto può giocare un ruolo importante nel conflitto israelo-palestinese. Non manca di sottolineare l’assenza di una politica europea per il Medio-Oriente, totalmente appiattita sugli Stati Uniti.
Il pomeriggio, dopo avere visitato il centro e il suk di Betlemme, abbiamo fatto un giro per il campo profughi “Aida”, dove abbiamo assistito anche a una gara di aquiloni. Terribile il muro che lo circoscrive, dietro al quale c’è la tomba di Rebecca. Siamo stati a casa di un ragazzo amico di Meri, la cui casa è rimasta al di là del muro. La serata si è conclusa assistendo a un concerto, nell’università pubblica di Betlemme, con complessi di palestinesi residenti, palestinesi residenti in Siria e in Libano, che hanno ripercorso canzoni e musiche della loro storia e tradizione, con grande partecipazione di pubblico.
Il 15 maggio è la data in cui il consolato ci aveva comunicato che potevamo andare a Eretz per passare alla striscia di Gaza. Alzata alle cinque e andiamo con un pulmino a Ramallah, da dove, con due macchine, ci rechiamo al check-point di Herez. Ma il 15 maggio è il giorno della Nakba ed è prevista una mobilitazione generale dei palestinesi verso tutti i confini di Israele e quindi anche da Gaza verso Eretz. Capiamo subito che, contrariamente a quanto dettoci dal funzionario del consolato, non avevamo alcun permesso per entrare. Presentiamo i passaporti, ci fanno accomodare negli uffici del confine. Dopo un poco, avvertiamo un certo nervosismo. Vengono dei soldati israeliani e ci fanno uscire, intimandoci di allontanarci. Non facciamo in tempo a spostarci nella zona di sosta dei taxi, che cominciamo a sentire una sequela di botti, che sembrano bombe. Sapremo dopo che si trattava di pallottole sparate dagli israeliani, che oltre a spappolare l’obiettivo, fanno partire delle lamine, come dei piccoli dischetti che tagliano tutto ciò che incontrano. Sentiamo sopra di noi una squadriglia di caccia e ci sono anche gli elicotteri apache e anche una contraerea. Sentiamo anche le sirene delle ambulanze e comprendiamo che qualcosa di grave sta avvenendo al di là del muro. Noi siamo preoccupati e impotenti e decidiamo di trasferirci presso il posto-ristoro che si trova a due Km da lì. Sapremo poi che ci sono stati due morti e oltre 100 feriti, tra cui alcuni anche gravi e poi 20 morti sul confine siriano e libanese, tra cui anche bambini, solo perché i manifestanti si erano portati sotto il muro di confine. Sapremo anche che dai consolati europei, tranne dal nostro, era stato diramato un allarme di rischio rapimento per gli italiani. Ci dicono anche che il check-point sarà chiuso per 24 ore.
Ce ne ritorniamo a Ramallah, ci prendiamo un albergo. Il resto del viaggio ruota intorno all’attesa per l’ingresso a Eretz-Gaza, senza potere programmare altre iniziative. Il 16 gli amici del gruppo tornano a Eretz nel vano tentativo di entrare. Io sono rimasto e ho approfittato per fare un giro a Ramallah insieme a Davide, un giovane impegnato nella cooperazione che vive nella porta accanto alla casa di Meri e Marina.
Il 17 maggio, dopo vari contatti con il consolato, visitiamo una scuola nel campo profughi di Qalandiya, che raccoglie profughi del ’48 e i loro discendenti. Nei pressi della scuola, visitiamo la cooperativa di scarpe, borse e cinture di cuoio, in collaborazione con la ONG italiana “Vento di terra”. Nel pomeriggio visitiamo alcuni orti domestici nei villaggi di Isma e Al Azariya in Betania (luogo dove sarebbe avvenuta la resurrezione di Lazzaro) i cui progetti sono sostenuti dalla ONG italiana ACS, in collaborazione con l’associazione palestinese PARC (Palestinian Agricoltural Relief Committee), per aiutare le famiglie più bisognose, a cui gli insediamenti israeliani hanno sottratto i terreni di coltivazione e di pascolo. Abbiamo visitato anche una piccola associazione di donne, con cui collaborano anche donne israeliane e che si occupano di preparare pasti e confetture di frutta e verdura. Dopo una visita al muro che separa Al Alzariya da Gerusalemme, all’altezza del Monte degli Ulivi, siamo rientrati all’albergo della mezza luna rossa, dopo esserci consentita una spaghettata a casa di Meri. Verso le 23, 20, giunge, ormai inaspettata, la telefonata del consolato che ci comunica l’autorizzazione per passare a Gaza l’indomani molto presto. L’indomani è il 18 maggio, l’ultimo giorno di nostra permanenza in Palestina. Io avevo ormai preso la decisione di non andare. Ho approfittato per visitare Gerico, la valle del Giordano e il Mar Morto.
Gli altri amici della delegazione hanno incontrato i contatti di Gaza che li hanno portati a visitare i progetti di cui la delegazione della Provincia di Roma e altre associazioni sono cofinanziatori. Poi sono andati all’università pubblica di Al Quds, che accoglie 17 mila studenti di cui i due terzi sono donne. Poi la sera hanno incontrato il consiglio municipale di Beitlahiya.
Il 19 maggio è il giorno del nostro ritorno. Abbiamo l’aereo per Roma alle 18,50. Con Meri partiamo da Ramallah alle 11 per andare a Eretz. Quando arriviamo alle 13,00, il resto della delegazione aveva già passato i controlli e ci attendeva al posto di ristoro lì vicino, dove abbiamo preso un panino e un caffè. Alle 14 ci siamo diretti a Tel Aviv, sottoponendoci ai rigidi controlli e attendendo a lungo il nostro capogruppo Gian Luca Peciola a cui, con la scusa che aveva il timbro della Giordania sul passaporto, hanno fatto pagare caro il passaggio a Gaza, sottoponendolo a controlli corporali e del bagaglio, davvero avvilenti. Alle 21,30 locali siamo arrivati a Fiumicino, dove, a malincuore, ci siamo separati dai nostri compagni di viaggio coi quali abbiamo condiviso tante emozioni e chissà, forse siamo tornati più ricchi.
Che dire? E’ stata un’esperienza unica. Certamente diversa da chi va in Palestina da turista. Bisogna entrare dentro quella realtà per capire lo stato di prostrazione e di rabbia di un popolo che vive su un territorio occupato e costantemente rapinato, sottoposto a continui controlli. Nonostante il muro, si vedono abbarbicati sulle colline enormi agglomerati bianchi di case dei coloni, che sottraggono ulteriore terreno all’agricoltura e al pascolo.
Ma c’è un’altra cosa che mi sembra di dovere sottolineare e che forse spiega anche la situazione di stallo in cui da decenni si trova la questione palestinese. Arrivano soldi da mille rivoli e ciò ha permesso non solo fenomeni di corruzione che si sono manifestati sia nella dirigenza di Hamas e dell’autorità nazionale palestinese, ma anche il formarsi di una certa borghesia, il cui status stride con quello della popolazione dei campi e quella comune, che è molto critica verso la gestione autoritaria della loro dirigenza.
Tuttavia, si coglie una fase di nuova speranza e di forte determinazione e una grande consapevolezza, soprattutto nelle nuove generazioni, cresciute al di fuori delle divisioni e contrapposizioni di potere delle varie componenti della dirigenza palestinese. C’è ormai una volontà maturata nel volere giungere a proclamarsi Stato indipendente, probabilmente entro settembre. E che i tempi siano maturi, sembra abbiano trovato suggello nelle parole del nostro presidente della Repubblica, il quale, in Palestina negli stessi giorni in cui c’eravamo noi, ha annunciato l’apertura di una sede diplomatica palestinese in Italia.
Piero di giorgi